Coinvolgere i cittadini per migliorare la resilienza: questa è l’idea alla base del progetto KNIGHT, rivolto al delta del Nilo, le cui metodologie potranno essere applicate anche sul territorio italiano
Una collaborazione multirischio che coinvolge due sponde del Mediterraneo: è partito da pochi giorni il progetto KNIGHT (Knowledge base for Nile Geo-Hazards Tackling), dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (Ogs), il cui obiettivo è quello di rendere più resiliente l’area del delta del Nilo di fronte ai pericoli naturali e alle nuove sfide climatiche. L’attività nasce a partire da collaborazioni che sono proficue e consolidate, sia con i partner sul territorio italiano che su territorio egiziano. Lo scopo di ampio respiro è quello di proporre delle linee guida che possono essere utilizzate per il piano nazionale di emergenza egiziano, ma anche di sviluppare e sperimentare nuove strategie che possono essere utili anche per il territorio italiano. Ne abbiamo parlato con la dottoressa Antonella Peresan, coordinatrice del progetto per Ogs.
Quali obiettivi vi ponete per il progetto KNIGHT?
Vogliamo rafforzare la resilienza dell’ambiente rispetto ai possibili fenomeni naturali nell’area egiziana. In particolare nell’area del delta del Nilo esiste la possibilità che si verifichino diverse tipologie di hazard, di pericoli, anche simultaneamente. Per esempio, un terremoto in mare potrebbe determinare dei fenomeni franosi lungo la costa, oppure un evento di tsunami. Questo tipo di effetto a cascata a sua volta potrebbe determinare un’ingressione di acqua salmastra nell’area del delta, andando a contaminare le riserve di acque dolci, oppure potrebbe coinvolgere gli insediamenti industriali della zona, portando a un inquinamento delle acque. Ora, questo può sembrare un evento a cascata poco probabile, ma in realtà questi fenomeni potrebbero diventare sempre più frequenti col passare del tempo. Il fatto è che l’area del delta del Nilo è soggetta a subsidenza, un processo in cui il terreno sprofonda lentamente e progressivamente. A questo fenomeno si va a sommare l’innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento globale, per cui verosimilmente questa tipologia di rischi è destinata a diventare sempre più severa e più probabile.
Quale prospettiva adotterete?
L’idea è di non considerare questi fenomeni separatamente, ma piuttosto adottare una prospettiva che definirei olistica, multirischio. Multirischio significa non considerare solo il terremoto o il maremoto separatamente, ma metterli insieme e cercare di individuare la connessione a cascata tra questi eventi, per cercare di capire cosa può accadere in futuro. Dobbiamo riuscire a sviluppare delle strategie che permettano di mitigare anche più di uno di questi rischi simultaneamente. Per esempio quelle che possono essere misure di protezione in caso di tsunami potrebbero andare bene anche nel caso di altri fenomeni legati all’acqua. Quindi dobbiamo cercare di immaginare come si può comportare il sistema collettivamente, tramite la descrizione del territorio basata sui dati che abbiamo raccolto, e la caratterizzazione degli hazard, anche utilizzando modellazioni avanzate di tsunami, di terremoti e di altri fenomeni. Poi, sulla base di questi scenari che abbiamo definito, possiamo fornire delle linee guida per una progettazione che siaresiliente in una prospettiva a lungo termine.
Perché è stato scelto il Nilo per questo progetto?
Perché il Nilo è l’elemento portante economico e sociale dell’Egitto. Di conseguenza, se un evento calamitoso impatta su queste aree, ha un riflesso sull’economia e sulla popolazione, con conseguenze che possono essere a lungo termine. Quella del Nilo è dunque un’area chiave per il territorio egiziano. E può fare da esempio anche per alcune aree del territorio italiano, su scala molto più piccola, come il delta del fiume Po. Da queste esperienze possiamo quindi imparare qualcosa di utile anche per il nostro territorio.
Quali potrebbero essere le applicazioni sul territorio italiano?
Le metodologie che andiamo ad applicare in Egitto sono state sviluppate e applicate anche sul territorio italiano, nell’ambito di diversi progetti. Chiaramente bisogna adattare gli studi al contesto locale, quindi è fondamentale la conoscenza specifica dei ricercatori egiziani che collaboreranno a queste metodologie. D’altra parte anche quello che apprenderemo da questi studi potrà essere utile per migliorare le nostre conoscenze. Faccio un esempio: l’alto Adriatico per la sua configurazione geomorfologica non ha storicamente grande memoria di tsunami, mentre l’Egitto ne ha sofferto molto di più: ci sono più evidenze storiche, associate ad eventi avvenuti nell’area della Grecia e di Cipro. Qualche lezione potremmo apprenderla, anche se si tratta di fenomeni con entità diversa. Possiamo studiare anche dei problemi comuni: per esempio città costiere turistiche come la città di Alessandria d’Egitto possono avere delle problematiche simili a quelle delle nostre coste. L’elemento comune su cui vorremmo lavorare è anche il ruolo dei cittadini, l’elemento umano che si inserisce sui pericoli naturali. Molto dipende da come si gestisce il territorio e da come la componente umana interagisce con questi rischi.
In che modo possono essere coinvolti i cittadini?
Noi vogliamo coinvolgere innanzitutto i ricercatori, nella fase di sviluppo e applicazione dei modelli, poi anche chi decide e gestisce le emergenze. Ma parallelamente organizzeremo anche delle campagne di sensibilizzazione rivolte alla popolazione, alla quale cercheremo di illustrare e far comprendere questi rischi, supportati da dati e dai modelli che svilupperemo. Vogliamo coinvolgere attivamente i cittadini nella raccolta dei dati, ad esempio chiedendo loro di compilare delle schede relative alle strutture, a edifici storici o residenziali, raccogliendo delle informazioni che possono essere incorporate nelle valutazioni di rischio. Questo lo stiamo già sperimentando sul territorio italiano, tramite attività che hanno coinvolto prevalentemente studenti delle scuole superiori. Vorremmo ripetere questa esperienza anche in Egitto, visto che è utile dal punto di vista della raccolta del dato, ma anche perché prepara i cittadini e li rende più consapevoli e più sensibili, aiutandoli a esplorare il territorio con un occhio più critico.
Rendere i cittadini più interessati significa renderli più preparati. Perché se io chiedo a una persona di osservare un edificio, di dirmi com’è fatto, quali caratteristiche ha, qual è il suo stato di conservazione, quella persona avrà anche l’interesse a guardare casa propria, a chiedersi come è fatta, come è mantenuta, se è sicura rispetto ai rischi considerati. Se noi forniamo anche un minimo di nozioni tecniche di base, li aiutiamo anche ad avere un occhio più critico rispetto a quello che potrebbe succedere. Per esempio: se la mia casa ha solo un piano, in caso di maremoto o alluvione non ho possibilità di andare al piano superiore, quindi devo pensare a come potrei organizzarmi se si verifica un tale evento.
A che punto è il progetto?
Il progetto è iniziato il 20 di gennaio, quindi è stato appena avviato. La durata prevista è di due anni. In questi due anni l’attività prevalente sarà quella della raccolta di dati, la creazione di un database organizzato, che ci permetta di avere un quadro omogeneo e consistente. A questo si affiancheranno anche modellazioni con metodi che sono stati già sviluppati e applicati in altre regioni. Questi dati ci consentiranno di proiettarci nel futuro, anche per vedere come si svilupperanno le città e gli stessi eventi calamitosi, e provare a pianificare e migliorare la risposta, ossia la resilienza ai rischi naturali e ai cambiamenti climatici.
Giovanni Peparello
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