C’è una parola che secondo Riccarda Zezza, fondatrice della piattaforma di sviluppo Lifeed, dovremmo integrare nel nostro vocabolario professionale: questa parola è cura. La usiamo spesso in casa, con i nostri figli e i genitori, o se andiamo a trovare un malato. La pronunciamo soprattutto noi donne, nella quotidianità. Sul lavoro, invece, no. Eppure prendersi cura degli altri, e non solo nel privato, farebbe bene a tutti. Ai dipendenti (oggi più spesso definiti persone), ai manager, alle aziende stesse.
Cura è il titolo del nuovo libro di Riccarda Zezza (FrancoAngeli) pubblicato nella collana “Voci del lavoro nuovo” diretta da Silvia Zanella; a un mondo in cambiamento serve un lessico diverso, sostiene la curatrice, che comprenda parole magari già esistenti, ma enunciate in altri contesti. «La cura ci fa stare bene, è un istinto naturale, ci viene facile» dice Riccarda Zezza. «Noi esseri umani non saremmo arrivati fin qui se non ci fossimo presi cura degli altri, se non avessimo portato attenzione e ascolto. La cura è fatta di piccoli gesti. Il barista che disegna il cuore sul cappuccino ci strappa un sorriso. Certo, con quel disegno perde qualche secondo nella preparazione dei caffè. Ed è proprio l’allungamento dei tempi uno dei motivi per i quali di cura, negli uffici, si parla ancora troppo poco».
La cura è comunità e partecipazione
Si può lavorare dove non ci si preoccupa della cura? Sì, in passato lo si è fatto spesso e lo si fa ancora. Ma, secondo Zezza, ci si espone a conseguenze negative: «Quando ci si trova in un ambiente tossico, con una leadership debole, e una mancanza di equilibrio tra lavoro e vita privata, si rischia una mancanza di coinvolgimento e di motivazione» sostiene. La cura, invece, permette di portare competenze utili nel lavoro. Pensiamo a una giovane mamma, o a un caregiver, che deve sapersi organizzare, avere chiare le priorità, prendersi responsabilità ma anche, quando serve, essere creativo.
Spiega Luigina Mortari, docente di Epistemologia della ricerca qualitativa all’università di Verona e autrice di Emozioni e virtù (Raffaello Cortina): «Non c’è cura se non metto gli altri nelle condizioni di essere non un oggetto di interventi ma un soggetto, se non c’è una dimensione più partecipata nella gestione della vita insieme. Etica e cura ci sono quando tutti diventano parte di una comunità e hanno un ruolo di pensiero e azione. Fare un lavoro di cura significa agire secondo virtù. Per stare bene con gli altri, dobbiamo coltivare le virtù ogni giorno».
Allo stesso tema fa riferimento anche un altro libro appena uscito, Design della cura (De Ferrari editore), di Davide e Daniele Rampelli: in dialogo con cinque professionisti, gli autori ipotizzano un nuovo modo di progettare, più etico, che metta in relazione cura, curiosità e design.Tre parole che, secondo loro, esprimono in modo diverso l’interesse verso gli altri e verso il nuovo.
Sale luminose, piante e salottini
Ma se il dibattito va avanti, le aziende, intanto, come si comportano? Stanno riflettendo su cosa significa star bene, ogni giorno, in un ambiente di lavoro? Fabiana Carioli, People experience director di Grenke, società che aiuta le piccole e medie imprese a noleggiare attrezzature e tecnologie, qualche anno fa si è trovata fianco a fianco con i progettisti della nuova sede milanese, accanto al Bosco verticale. E lei, che si stava laureando in Psicologia ambientale e architettonica, ha scritto la tesi proprio su come gli spazi possono influire sul benessere delle persone. Ed ecco, oggi, sale luminose, dai colori tenui, che si alternano a salottini piccoli per telefonate o momenti privati, una cucina condivisa, tante piante.
Ma il prendersi cura, spiega, non è solo benessere, è anche altro: «Vuol dire no a una relazione sbilanciata, sì a una sinergica. Vuol dire costruire un contesto in cui una persona possa esprimersi in modo “rotondo”. Partendo dall’ascolto e dalla fiducia, che si costruiscono insieme». Prima di chiamare gli architetti, Grenke ha chiesto alle sue persone (non usano il termine dipendenti) che cosa si aspettassero dal nuovo ufficio, considerato che parte della settimana lavoravano già da remoto. «Ci hanno chiesto spazi per collaborare, entrare in relazione. Così abbiamo fatto e oggi, qui da noi, non ci sono stanze separate neanche per la direzione».
La cura è un investimento sul futuro
Ascolto, fiducia, relazioni orizzontali, autonomia: come sostiene la professoressa Mortari, significa puntare sul senso di comunità e sulla partecipazione. All’inizio ascoltare gli al- tri può allungare i tempi, ma l’investimento è rivolto al futu- ro: «Prendersi cura fa bene al business», è il parere di Carioli.
«Abbiamo fatto ottimi risultati nel 2024 e non abbiamo pro- blemi di fidelizzazione: le nostre persone restano, perché si sentono valorizzate».
Ascoltare i bisogni
Partire dalle parole può essere importante. Francesca Mariani, ceo di Var Group che accompagna le imprese nel per- corso di trasformazione digitale, non richiede più ai dirigenti la competenza nel People management, cioè nella gestione delle persone, ma nel Take care of people, nel prestare attenzione: «Le persone non hanno bisogno di essere gestite» sostiene. «Conta di più creare le condizioni affinché ci si possa sentire valoriz-zati. Stare bene insieme in azienda vuol dire abbattere i confini tra i capi e gli altri, sviluppare relazioni per le quali ci si senta liberi di esprimersi. Vuol dire anche confrontarsi e risolvere i problemi capendone l’importanza».
Francesca Mariani è partita dalla sua esperienza personale: figlia di una maestra di sostegno che nel pomeriggio andava a trovare i suoi piccoli alunni con disabilità, ha imparato ad ascoltare i bisogni, espressi e inespressi. In Var Group all’interno di alcune regole, «chiunque può agire senza chiedere il permesso». Naturalmente gli ambienti di lavoro accoglienti possono aiutare a sentirsi parte di una comunità: nell’ufficio di Monaco appena inaugurato, l’azienda ha realizzato spazi che permettono momenti di condivisione, anche informali, con salottini e divani. «Il mio obiettivo è aiutare a trovare un equilibrio tra vita privata e professionale».
Un programma per gestire le emozioni
Anche secondo Generali Italia, prima in classifica tra le aziende Top Employer 2025, il termine cura significa creare un ambiente di lavoro in cui ciascuno si senta valorizzato e supportato nel proprio percorso, in un ambiente sicuro e stimolante. Ascolto e inclusione servono anche a stimolare il senso d’appartenenza. Oggi in Generali il modello di lavoro si chiama R.E.D. Working (Relevant, Empowering, Dynamic) e punta su equilibrio tra vita e lavoro, fiducia, spirito di squadra e comprende, per esempio, il program- ma di sostegno psicologico “Come stai?”, che aiuta a gestire le emozioni e combattere i pregiudizi.
Per Schneider Electric, specialista globale nella gestio-ne dell’energia e dell’automazione industriale, appena nominata per la seconda volta azienda più sostenibile del mondo secondo Corporate Knights Global 100, la cura non è «solo un obiettivo produttivo ma un processo per raggiungerlo» spiega Chantal Scaccabarozzi, HR Vice president Italy. «Vuol dire far sì che le persone condividano i nostri valori, siano proattive, curiose, lavorino in team, puntino alla sostenibilità». Ogni anno, i collaboratori partecipano a un’indagine dove possono raccontare liberamente come si sentano valorizzati e soddisfatti, quanto diano e ricevano fiducia. «Cura vuol dire anche dare risposte diverse a esigenze professionali diverse. Noi proponiamo tre percorsi di sviluppo secondo tre diverse fasi della carriera; all’i- nizio, nella maturità, un po’ prima dell’uscita. Per tenere la per- sona al centro del lavoro» conclude.
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