Si dice “manifestamente infondato” un esposto presentato alla magistratura non sostenuto da prove o testimonianze di terzi. Se qualcuno semplicemente chiedesse ai giudici di accertare se Giorgia Meloni, nel video in cui ha annunciato di essere indagata insieme ai ministri Carlo Nordio, Matteo Piantedosi e al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, fosse in stato di ebbrezza alcolica, l’esposto verrebbe immediatamente archiviato: perché non c’è alcuna prova dello stato di alterazione della premier (non c’è stato, ad esempio, l’esame del palloncino) né terzi l’hanno vista bere prima di girare il video. Inutile aggiungere che bere non costituisce una violazione (a meno che non ci si metta subito dopo alla guida di un’auto: la guida di un governo non è prevista dal codice della strada) e che confondere la segnalazione di una denuncia con un avviso di garanzia, per quanto imbarazzante sotto il profilo della preparazione giuridica di un capo di governo e di chi la consiglia, non potrà mai e poi mai essere considerato un sintomo evidente di ubriachezza. Dunque, immediata archiviazione, perché l’esposto non è un esposto ma una gratuita insinuazione.
Se invece qualcuno, come ha fatto l’avvocato Luigi Ligotti, si chiede perché il guardasigilli Nordio non abbia risposto ai giudici che sostanzialmente gli chiedevano, come la legge impone loro, che fare del generale libico Osama Almasri Mjeem, arrestato su mandato della Corte penale internazionale (CPI) con accuse gravissime tra cui tortura e omicidi di migranti trattenuti illegalmente in centri di detenzione del suo Paese; se nello stesso esposto si chiede al ministro dell’Interno in base a quali motivi di sicurezza Almasri, dopo la scarcerazione, sia stato rimpatriato con un volo di Stato e perché la Presidenza del Consiglio, che ne aveva il potere, abbia autorizzato quel volo, propone domande argomentate, basate su fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che suscitano questi e altri interrogativi. Interrogativi, non accuse. Ipotesi di reato (favoreggiamento e peculato), non asserzioni. Che comunque il procuratore di Roma Francesco Lo Voi, non vedendo estremi di manifesta infondatezza, ha trasmesso, com’era suo dovere, al Tribunale dei ministri, senza compiere alcun atto di indagine. Si tenga presente che dai banchi del governo nessuna risposta è ancora giunta alle domande poste implicitamente dall’esposto.
Tutto sembra abbastanza chiaro. In teoria, ci sarebbero le condizioni perché l’intera vicenda venga consegnata all’oblio di ciò che è ordinario, fisiologico, naturale. È accaduto in passato quando il presidente del Consiglio Conte e il ministro della Sanità Roberto Speranza furono messi sotto inchiesta (e poi assolti) per non aver istituito una zona rossa in Lombardia, all’epoca del Covid. In questo caso, Giorgia Meloni ha però deciso di fare la storia. A modo suo, ovviamente. Con un attacco poderoso, scomposto e denso di errori in fatto e diritto all’intera magistratura, accusata di remarle contro. E allo stesso procuratore Lo Voi, “colpevole” di osservata procedura penale e omesso occultamento di possibili notizie di reato, finito ora nel mirino di FdI, alla ricerca spasmodica di condotte del magistrato che possano delegittimarlo.
È chiaro che sulla pelle di Lo Voi si gioca un’altra partita. Discutere di un fatto inesistente, ipotizzare complotti antigovernativi, sostenere che se si attacca Giorgia Meloni si attacca l’intera nazione rimanda ad argomenti più corposi. In primo luogo ai “successi” (dello “zerovirgola”) in economia attestati dal governo, oggi smentiti dai dati Istat. Per la compagine governativa, da questo punto di vista, sembra consigliabile parlare d’altro. Ad esempio, di presunte cospirazioni giudiziarie ordite per far deragliare l’esecutivo. A questo va aggiunto che la vicenda Almasri è tra le più oscure e intricate emerse negli ultimi anni. Secondo indagini dell’ONU, il generale scarcerato è una sorta di demiurgo del traffico dei migranti, “direttamente responsabile del loro trasferimento e del lavoro illegale”. Il suo compito è suddiviso in quattro fasi: ricerca e intercettazione dei migranti in mare; trasferimento dai punti di sbarco ai centri di detenzione; direzione per la lotta all’immigrazione clandestina; infine, la scarcerazione e la consegna agli scafisti. Tra la cattura e il rilascio avvengono torture, riduzioni in schiavitù e schiavitù sessuale, stupri, omicidi. I video delle sevizie vengono spesso trasmessi ai parenti delle vittime, nei loro Paesi d’origine, per ottenere denaro in cambio della liberazione dei congiunti (si veda l’articolo di Nello Scavo apparso sull’“Avvenire” del 29 gennaio).
Dopo uno dei provvedimenti giudiziari contro il trasferimento di migranti in Albania, Giorgia Meloni gridò che non si sarebbe fermata, ribadì che la sua era una lotta contro le mafie dei trafficanti di uomini. Bene, stando alle accuse della CPI e dell’ONU, Almasri, accolto al suo rientro in Libia come un eroe, è uno dei capi di queste mafie. Meglio per Meloni cambiare argomento?
Anche sul fronte delle decantate proposte di riforme istituzionali (“per rendere l’Italia un Paese migliore”, dice la premier), qualcosa sembra non aver funzionato. Dopo che la Consulta ha – si passi il termine – asfaltato l’Autonomia differenziata e che il Premierato, madre di tutte le riforme meloniane, una forma di governo che al mondo non esiste, è stato prudentemente messo da parte, rimane un solo modo per trasformare le istituzioni che i padri costituenti avevano immaginato e creato: separare le carriere dei magistrati.
Il ministro Carlo Nordio ha dichiarato, in sede di approvazione alla Camera, che la legge sulla separazione delle carriere è un “obbligo” verso i cittadini che hanno eletto questa maggioranza. Nordio ha dimenticato che in ben due referendum, il 21 maggio 2000 e il 16 giugno 2022, provvedimenti dello stesso tipo furono bocciati dai cittadini chiamati alle urne per due distinti referendum. La proposta di modifica costituzionale (articoli 87, 102, 104 e 105 della Costituzione) del disegno di legge licenziato dall’attuale governo è stata preceduta negli anni da iniziative che aiutano a comprenderne il significato, finora non abbastanza chiaro nelle formulazioni governative espresse nel pieno di polemiche. Sempre intervenendo in Parlamento, Nordio ha detto che la legge garantisce testualmente indipendenza e autonomia anche per quanto riguarda la magistratura requirente, quella che promuove l’azione penale. È vero, questa garanzia compare nella proposta di modifica dell’articolo 104 della Costituzione. Pochi giorni dopo, Nordio si è però lanciato in una filippica contro i pubblici ministeri, definendoli “superpoliziotti fuori controllo”. È evidente che le sue parole cozzano una con l’altra. Che senso ha proporre un testo di modifica costituzionale che garantisce l’indipendenza anche di magistrati che si pretendono “fuori controllo”?
Chiaramente, nessuno, tanto meno Nordio, ci dirà chiaro e tondo che PM e azione penale devono finire sotto il controllo dell’esecutivo: passi la separazione delle carriere, ma abolire con essa la separazione dei poteri uscita dalle rivoluzioni francese e americana e dalla penna di Montesquieu è impresa troppo audace per essere confessata apertamente. Eppure, in quella direzione si muovono da anni le politiche proposte dai partiti di questa maggioranza. Ad esempio, si discute da tempo se far decidere al Parlamento le priorità investigative, modificando la Costituzione che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale dal momento che la legge è uguale per tutti. Una proposta del genere fu sottoscritta nel 2009 dall’ex ministro Alfano.
Ancor prima, nel 2003, l’avvocato Pecorella, uno dei numerosi difensori di Silvio Berlusconi, aveva proposto di far eleggere i capi delle Procure (gli uffici da cui dipende l’azione penale) da organismi politici, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle carriere di magistrati requirenti (che esercitano la pubblica accusa) e giudicanti. Continuando così nel solco tracciato per primo da Licio Gelli, capo della P2.
Secondo Angelino Alfano, il PM doveva diventare una sorta di avvocato della polizia, con una sottoposizione di fatto all’esecutivo. Quando anche oggi si dice che avvocati delle parti e dell’accusa devono essere pari e comunque subordinati rispetto alla magistratura giudicante, si rimanda, forse involontariamente e in buona fede, proprio a un’azione penale guidata dal governo.
Dunque, si parla di separazione delle carriere, ma il rischio è che nel mirino ci sia la separazione dei poteri, architrave delle democrazie occidentali. Il sogno dell’uomo o della donna soli al comando e al di sopra di ogni controllo di legalità, rinvigorito dalla vittoria e dalle scelte di Donald Trump, continua ad allietare le notti del centrodestra. Gli attacchi al procuratore Lo Voi, le recriminazioni e gli insulti contro i magistrati che bocciano i trasferimenti dei migranti in Albania si muovono nella stessa direzione. Se il Premierato forte esce dalla porta, qualcosa di simile può rientrare dalla finestra con la separazione delle carriere dei magistrati. Ci sono settori dell’opposizione che tardano a capirlo. Prima lo faranno, meglio sarà per tutti.
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