La sinistra si faccia protagonista di una nuova politica industriale europea

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Desistenza, accordo sui collegi, riforma della legge elettorale: il dibattito sulle forme dell’alleanza tra le forze del centrosinistra ciclicamente riaffiora, come in queste settimane. Si tratta tutto sommato di un segnale positivo: significa che le prossime elezioni politiche — e con esse la possibilità di cambiare la maggioranza di governo — si stanno avvicinando.

Il problema rimane tuttavia sempre lo stesso: il programma, le analisi compiute per determinarlo, l’orizzonte strategico evocato, l’idea-forza (di paese, di Europa, di mondo, di modello economico e sociale) che viene proposta. Su questo terreno occorre essere credibili e comprensibili e, al contempo, posizionarsi in sintonia con le esigenze della nuova fase apertasi, a livello mondiale, con l’avvio del secondo mandato di Donald Trump.

Molto, se non tutto, ruota intorno alla politica industriale. Essa è complessivamente la cartina di tornasole del posizionamento sullo scacchiere internazionale, di un’idea di modello di sviluppo e di rapporti tra i diversi livelli del potere pubblico e il mercato. Inoltre, consente di porre a tema la questione delle relazioni industriali e dunque della democrazia economica. Ancora, implica scelte precise di politica economica, che orientino rispetto a criteri di competitività ma anche di carattere ambientale e sociale. Infine, la politica industriale implica naturaliter l’esigenza di una pratica di programmazione e di pianificazione, cioè di primato della politica sul mercato.

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Ciò che è vero in astratto, sul piano teorico, è vero a maggior ragione nel vivo di una congiuntura segnata da una competizione globale nella quale Stati Uniti e Cina stanno dimostrando di sapere e di volere praticare politiche industriali forti e politiche commerciali aggressive.

L’Europa stritolata tra trump, cina e russia

Dopo l’Inflation Reduction Act di Joe Biden — un piano di contenimento dell’inflazione il cui fiore all’occhiello è stato il clamoroso pacchetto di crediti d’imposta, prestiti e sovvenzioni per incentivare il reshoring e praticare una trasformazione industriale climaticamente sostenibile — il nuovo presidente Trump ha annunciato una politica commerciale ancora più aggressiva, attraverso il mix di nuove tariffe sui beni importati e un regime fiscale ultra-agevolato per le produzioni made in Usa.

Cambia il terreno di gioco (più politica di concorrenza, più potere ai mercati, meno intervento pubblico) ma non cambia l’obiettivo: correggere il passivo della bilancia commerciale statunitense e vincere la sfida competitiva.

Innanzitutto contro una Cina che ha saputo progressivamente integrarsi nei mercati globali, incoraggiando le esportazioni e lo sviluppo di tecnologie domestiche (sull’intelligenza artificiale generativa i cinesi brevettano ormai molto più degli Usa) e al contempo mantenendo misure protezionistiche tali da tutelare i propri asset strategici; ma — al contrario degli Usa — ha anche lavorato per rafforzare un esteso soft power, attraverso reti infrastrutturali, politiche e diplomatiche che hanno lambito persino l’Europa (la Belt and Road Initiative).

Nel mezzo di questa asimmetria e di questo squilibrio macroeconomico oggettivamente destabilizzante (anche la Russia, e non solo la Cina, registra una forte, e consolidata, eccedenza commerciale), l’Europa rischia di rimanere stritolata.

E lo sarà se non darà sostanza, innanzitutto produttiva e industriale, alla propria strategia di autonomia. In misura ben più coraggiosa di quanto non dica la nuova «Bussola per la competitività» appena presentata dalla Commissione, recuperare il terreno perduto nell’arena competitiva mondiale, dotarsi di una nuova e forte politica industriale, lavorare per contribuire a ridurre le tensioni e proporre un proprio modello di sviluppo e di relazioni industriali sono allora obiettivi complementari, se non addirittura sovrapponibili.

Il ruolo della sinistra italiana

Ecco perché la sinistra italiana deve ricostruire, in asse con la socialdemocrazia, le sinistre e gli ecologisti europei, un programma di governo con questo respiro e questa ambizione. Ciò è necessario a maggior ragione ora, anche per correggere un’impostazione della nuova Commissione von der Leyen oggettivamente più arretrata di quella conosciuta negli anni passati: titubante rispetto al ciclone Trump, divisa, incerta persino sui fondamentali della transizione ecologica (come dimostra la clamorosa assenza dell’Analisi annuale della crescita sostenibile dal pacchetto di autunno del Semestre europeo).

La premessa dovrebbe essere condivisa: un progetto di riforma e rafforzamento della governance economica europea, che passi da un bilancio in grado di rendere strutturale l’Industrial Deal proposto dal rapporto Draghi, cioè un piano di investimenti sostenuto da emissioni obbligazionarie comuni. Ciò significa operare un salto di qualità rispetto al semplice allentamento delle regole sugli aiuti di stato (che alimentano squilibri tra i diversi paesi) e nuove regole fiscali che scorporino gli investimenti produttivi dai vincoli europei.

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Misure necessarie ma, in prospettiva, non sufficienti. Come è fondamentale affiancare agli investimenti pubblici un mercato finanziario unico che canalizzi il risparmio verso gli asset produttivi e mobilizzi le risorse private che oggi — in assenza di un mercato finanziario unificato — confluiscono in quello statunitense finendo con il rafforzare le imprese Usa (comprese, paradossalmente, quelle impegnate in Europa in grandi operazioni di acquisizione).

Il secondo passo è definire un quadro di politiche energetiche condivise e coordinate. Ciò vuol dire investire senza ambiguità sulla decarbonizzazione e sulle energie rinnovabili. Gli attuali livelli di prezzo dell’energia ci dicono che alla rottura delle relazioni con la Russia non ha fatto seguito una strategia adeguata. Serve completare un mercato comune dell’energia, come propone il Libro Bianco di Enrico Letta, e confezionare una strategia coordinata nella quale ogni Paese porti in dote le proprie fonti, contribuendo ad allentare in prospettiva le tensioni geopolitiche.

Il terzo passo è appunto una politica industriale che superi la semplice dimensione orizzontale e che provi a rinnovare — in un nuovo «patto di solidarietà produttiva» tra gli Stati membri — il «modello europeo». Perché certo: serve potenziare orizzontalmente la ricerca e lo sviluppo in tutti i settori. Ma occorre anche, verticalmente, creare una infrastruttura europea di ricerca e trasferimento tecnologico e complessivamente individuare le priorità di intervento, cioè i settori strategici nei quali potere creare nuove catene del valore.

la transizione è un investimento

Non esiste solo da difesa, per la quale le spese dei paesi Nato membri dell’Ue sono aumentate in un decennio di quasi il 50%, raggiungendo livelli record, e sulla quale pure, ovviamente, va coordinata un’industria che risponda a una politica di sicurezza comune in grado di prendere finalmente atto di un nuovo corso trumpiano che rende plastica la divergenza di interessi tra l’Europa e gli Stati Uniti.

La scelta a favore della transizione digitale e di quella ecologica è un’opportunità per ricostruire su basi nuove la capacità economica e industriale dell’Europa. Non si tratta di un costo, ma di un investimento. Della possibilità di creare più opportunità di occupazione dentro un nuovo quadro di pianificazione comunitaria a medio termine.

L’obiettivo deve essere allentare la rigidità anti-trust e superare un atteggiamento sulle fusioni che è figlio della politica di concorrenza di impostazione ordoliberale. Dunque, lavorare per la costruzione di campioni europei, per sfruttare i vantaggi di agglomerazione in termini di scala di produzione e di tecnologia, sia nel campo delle infrastrutture digitali e delle applicazioni di AI, sia nel campo delle telecomunicazioni, sia nel campo dei semiconduttori, sia nella filiera delle costruzioni, dell’edilizia e dei materiali.

Senza dimenticare la siderurgia e l’industria pesante dove nuove ricapitalizzazioni e incentivi al cambiamento dei macchinari e delle tecnologie possono favorire conseguentemente anche altri settori, dalla cantieristica all’automotive.

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In questo orizzonte l’Italia, che rimane la seconda manifattura europea, può fare molto. Occorre individuare i problemi principali e orientarsi, in un quadro di oggettiva crisi del sistema, per superarli.

All’ormai cronico disimpegno da parte dello stato rispetto al ruolo di programmatore e imprenditore va contrapposto un nuovo intervento pubblico che, come dimostra l’esperienza storica, se è agito in forma complementare agli investimenti privati tendenzialmente rafforza la base industriale e favorisce la competitività.

Alla frammentazione del tessuto produttivo e alla bassa propensione agli investimenti, così come alla difficoltà nel creare filiere integrate competitive, vanno contrapposti piani di investimento, capacità di programmazione e un sistema di incentivi pubblici da riorganizzare secondo criteri di stabilità e condizionalità ambientali e sociali.

Ai gap territoriali occorre rispondere con nuove politiche di coesione, con una strategia industriale in grado di valorizzare il Mezzogiorno nelle nuove filiere di innovazione e con la realizzazione di un piano di completamento delle sue reti infrastrutturali, portuali, logistiche ed energetiche.

Guai però a pensare, o praticare, a un approccio verticistico. Senza gli stakeholders nessuna politica industriale ha speranza di successo. A metà degli anni Sessanta, in Francia, Pierre Massé definiva il piano come «riduttore d’incertezza» per lo sviluppo industriale a medio e lungo termine. Un nuovo modello di programmazione, in una fase di transizione e di incertezza sistemica, deve garantire, tutelare, tenere insieme.

Perché funzioni, va costruito tassello dopo tassello insieme, sollecitando a ogni livello un nuovo protagonismo delle parti sociali e delle forze produttive. La scelta di affidare ad Andrea Orlando, nel Partito democratico, un lavoro di ascolto, di elaborazione e di proposta, che muove in questa direzione, è un’ottima notizia, un viatico benaugurante.

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