Vera Gheno, sociolinguista, è ricercatrice all’Università di Firenze. Ha pubblicato diversi libri, l’ultimo dei quali “Grammamanti. Immaginare futuri con le parole” (2024, Einaudi). Conduce, per Il Post, il podcast settimanale “Amare Parole”.
Sarà ospite di Primo Piano il 13 marzo, per un incontro al Teatro Asioli.
Il 10 dicembre 2024 l’Ocse – Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – ha pubblicato i dati della Survey of adult skills – ‘Indagine sulle competenze degli adulti’ – 2023, intitolata Do Adults Have the Skills They Need to Thrive in a Changing World?, ‘Gli adulti hanno le competenze necessarie per prosperare in un mondo che cambia?’. Questi dati sono stati raccolti all’interno del Piaac – Programme for the International Assessment of Adult Competencies, ‘Programma per la valutazione internazionale delle competenze delle persone adulte’.
Normalmente, i giornali si fermano di più a commentare i dati Ocse Pisa (Programme for International Student Assessment), che misura le competenze degli e delle studenti quindicenni; questa attenzione forse è dovuta al fatto che a una congrua parte della società interessa di più parlar male delle generazioni successive alla propria, piuttosto che preoccuparsi delle di quella di cui si fa parte.
I dati pubblicati il 10 dicembre non lasciano spazio a molto ottimismo: negli ultimi dieci anni, il livello medio di alfabetizzazione è migliorato solo in Danimarca e Finlandia, mentre è stabile o in calo in tutti gli altri paesi partecipanti. La maggior parte dei paesi che hanno sperimentato un calo delle competenze le ha viste diminuire sia nell’ambito dell’alfabetizzazione sia in quello del calcolo nelle varie fasce d’età. L’espansione dell’istruzione di base e avanzata non è riuscita a compensare questa tendenza, e nella maggior parte dei casi il livello di competenza tra i laureati con istruzione terziaria è diminuito o al massimo rimasto stabile. In più, le competenze sono calate in maniera particolarmente evidente tra le fasce meno istruite della popolazione. Questo vuol dire che il divario tra chi ha un alto grado di istruzione e chi ha un basso grado di istruzione è cresciuto.
La situazione italiana è decisamente negativa: lontana dai 260 punti che sono la media Ocse, è quasi in fondo alla classifica, seguita solo da Israele, Lituania, Polonia, Portogallo e Cile, a decine e decine di punti da Finlandia, Giappone, Olanda, Norvegia e Svezia. E la performance italiana è negativa sia nell’ambito della literacy, sia in quello della numeracy, sia in quello dell’advanced problem solving, vale a dire le competenze alfabetiche, quelle numeriche e la capacità di risolvere problemi complessi. Riguardo alle prime due competenze, il 35% delle persone in Italia si trova al Livello 1 o sotto, cioè è in grado di capire e concepire frasi semplici e di eseguire calcoli altrettanto semplici, ma nulla di più. Nell’ambito della risoluzione dei problemi, è il 46% a ritrovarsi al Livello 1. E questi dati, in una società complessa, che pone sfide cognitive altrettanto complesse, ci dicono che un terzo della popolazione non è semplicemente in grado di rispondere a tali sfide.
Altri dati preoccupanti riguardano le polarizzazioni: una differenza importante tra Nord e Sud; una, altrettanto rilevante, tra la fascia 55 e i 65 anni, che mostra i valori più bassi rispetto alla fascia 16-24 anni (quindi non è vero che c’è un decadimento cognitivo generazionale!); infine, il divario tra uomini e donne – a svantaggio delle donne – nelle competenze numeriche. Sapendo oggi che il genere femminile non è biologicamente meno portato alle scienze dure, è chiaro che siamo di fronte a una profezia che si autoavvera: ancora oggi, le donne vengono indirizzate di meno verso studi e carriere percepiti come “maschili”.
Prima di stracciarci le vesti, e accusare di questo decadimento quanto successo nel mondo nell’ultimo decennio, conviene riprendere in mano le considerazioni che faceva il linguista Tullio De Mauro nel 2008 rispetto ai dati pubblicati al tempo: quel pezzo si chiamava icasticamente “Analfabeti d’Italia” e venne pubblicato il 6 marzo sul numero 734 della rivista Internazionale. De Mauro scrive: «Cinque italiani su cento tra i 14 e i 65 anni non sanno distinguere una lettera da un’altra, una cifra dall’altra. Trentotto lo sanno fare, ma riescono solo a leggere con difficoltà una scritta e a decifrare qualche cifra. Trentatré superano questa condizione ma qui si fermano: un testo scritto che riguardi fatti collettivi, di rilievo anche nella vita quotidiana, è oltre la portata delle loro capacità di lettura e scrittura, un grafico con qualche percentuale è un’icona incomprensibile. Secondo specialisti internazionali, soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea».
In poche parole, i dati non si sono mossi un granché dal 2008 al 2024. Considerato che nel frattempo, almeno in teoria, l’accesso all’istruzione in Italia dovrebbe essere migliorato, come dovrebbero essere migliorate, mediamente, le condizioni di vita, vuol dire che c’è qualcosa che non ha funzionato come doveva. Forse non si è investito seriamente sulla scuola? Forse non si è investito nel modo giusto?
Eppure, saper leggere, scrivere e fare di conto è importante. Non solo per l’evoluzione individuale, ma per la preservazione della democrazia. Come notava sempre De Mauro nel già menzionato pezzo del 2008, nelle società aristocratiche non era necessario che tutte le persone fossero alfabetizzate. Bastava che ci fossero alcuni “uomini di lettere” (donne, per secoli, non pervenute), e per il resto si poteva tranquillamente fare a meno di queste conoscenze. Le nozioni di base, tanto, si potevano tramandare oralmente, e perfino per un nobile non era così necessario essere istruito, dato che poteva usare altre persone per svolgere le funzioni che non conosceva personalmente, ad esempio gli scribi. Oggi, però, non pensiamo più che ci siano persone di serie A e persone di serie B; puntiamo, sempre di più, a una società egalitaria, a una “città futura”, per usare le parole di Antonio Gramsci, in cui «Non c’è […] nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano». In altre parole, per essere pienamente membri di una democrazia, occorre avere il possesso di quegli strumenti cognitivi che ci permettono di comprendere il contesto in cui viviamo e relazionarci con esso. Se non altro per questo, dovremmo fare una seria riflessione su come insegnare a vivere in un mondo complesso. Per me, come per De Mauro, non ci sono dubbi: si parte da una delle tecnologie più antiche di tutte, la parola.
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