Giovani profughi nel centro di detenzione libico di Zawiya – Ansa
Nient’altro che merce. Da vendere, alcune volte acquistare, oppure concedere in prestito e perfino barattare. Il tragico mondo del generale Almasri è riassunto nelle 42 pagine con cui la Corte internazionale il 18 gennaio ha convalidato la richiesta di arresto. Una sintesi, con 214 allegati.
Il grossista delle vite scartate
Nella vita da grossista delle vite scartate, prima di uccidere qualcuno bisogna far di conto, e considerare se anziché essere buttato via può essere buono almeno per prendergli il sangue, che servirà per le trasfusioni ai miliziani feriti in battaglia. I magistrati dell’Aja scrivono al passato, avendo esaminato migliaia di pagine di testimonianze, referti, riscontri raccolti sul terreno, per il periodo 2014-2024. Si comincia dagli schiavi: «Sulla base del materiale fornito, sembra che alcuni detenuti, in particolare quelli dell’Africa sub-sahariana, siano stati costretti a svolgere lavori forzati. Altri sono stati costretti a combattere».
E poi quelli venduti: «Ha esercitato (Almasri) uno o tutti i poteri connessi al diritto di proprietà su una o più persone, ad esempio acquistando, vendendo, prestando o barattando le persone». Da qualche secolo non capitava di leggere del «diritto di proprietà» su altri esseri umani, alcuni dei quali, scrivono i giudici, «sono stati costretti a “donare” il sangue».
Lavori forzati e torture naziste
Il Tribunale non ha fatto sconti ad Almasri e neanche alla procura. Ad esempio quando l’accusa sostiene che «alcuni detenuti sottoposti a diritto di proprietà venivano anche indotti a compiere atti di natura sessuale». Secondo i giudici «non c’è un riscontro probatorio». Ma i dubbi della Corte finiscono qua. Il resto è un assortimento del peggior sadismo. «Sulla base del materiale disponibile, la maggioranza (due giudici su tre, ndr) ritiene che i detenuti dell’Africa subsahariana siano stati notevolmente mal-trattati nella prigione di Mitiga. Venivano trattati come “schiavi”, assegnati ai lavori forzati, utilizzati per compiti di gestione dei detenuti (ad esempio il trasporto e le perquisizioni dei detenuti stessi, ndr) e per abusare fisicamente di loro, anche tenendoli sospesi in posizioni di stress, rinchiudendoli in una bara in piedi e picchiandoli con il metodo “Falqa”».
Una tortura antica arrivata fino ai giorni nostri, dopo che ne ha fatto largo uso la Germania nazista e i Khmer rossi di Pol Pot in Cambogia negli anni ‘70. Gambe distese e piedi legati a un bastone per impedire di muoverli obbligando a distenderli. Poi bastonate furiose sulla pianta, fino a stordire e perdere i sensi, fino a non poter più camminare per settimane. Chi ci è passato dice che per muoversi si può solo strisciare, di modo che chiunque intorno veda che un uomo da quel momento non è più un uomo. La “Falqa” lascia segni anche per dieci anni e nella prassi internazionale quei segni facilitano la concessione dello status di rifugiato. Un errore che il generale cerca di non commettere più. I giudici hanno accertato che Almasri «ha ordinato alle guardie di picchiare i detenuti in modo da garantire che le ferite non fossero visibili».
«Vietato provare pietà»
In fondo al male, un barbaglio di umanità appare da chi non te lo aspetti. Non è un lavoro per gente dal cuore tenero. E Almasri non può permettersi cedimenti. Perciò ha fatto punire «le guardie che aiutavano i detenuti ad avere contatti con le loro famiglie o a ottenere cibo migliore».
Del resto, «le percosse ai detenuti erano una pratica comune tra le guardie carcerarie e i comandanti di turno che riferivano al signor Njeem (Almasri). In alcune occasioni Njeem era presente mentre le guardie picchiavano i detenuti o sparavano contro di loro». Il castigo per i reietti non si esaurisce mai nella sola oscurità della gattabuia. Per sopravvivere, come in ogni campo di concentramento, serve mettere gli uni contro gli altri. La paura delle guardie è nella natura delle cose. Ma avere terrore dei propri compagni toglie ogni speranza.
Per la Corte Njeem ha compiuto «come autore diretto o incaricando altri di farlo, i seguenti atti nei confronti dei detenuti del carcere di Mitiga: percosse, ordine ai detenuti di picchiare altri detenuti; torture; sparatorie; violenze sessuali». Fino a causare la morte.
Ora tanti libici sono in pericolo
I riscontri raccolti suggeriscono che all’occorrenza «Njeem ha personalmente picchiato, torturato, sparato, aggredito sessualmente e ucciso detenuti nel carcere di Mitiga e ha ordinato alle guardie di picchiare e torturare i detenuti». Tra i prossimi potrebbe esserci Hamed Hamza, presidente del Comitato libico per i diritti umani. E come lui decine di esponenti della società civile libica che ci hanno contattato nelle ore dell’arresto a Torino ringraziando la Polizia italiana. Un’illusione durata il tempo di un volo diretto per Tripoli. Almasri è tornato al suo posto «libero e continua a lavorare. Il ministro della Giustizia dice Hamza – non gli ha impedito di lavorare né ha aperto un’indagine interna. Lo sta coprendo e si adopererà per cercare vie legali per difenderlo». Vie legali, in un Paese senza legge.
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