di Giuseppe Gagliano –
Il Senato Usa ha bloccato con un voto le sanzioni alla Corte Penale Internazionale decise a seguito dei mandati d’arresto emessi contro il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex ministro della Difesa Yoav Gallant per l’eccidio compiuto a Gaza, 47mila moti di cui un terzo bambini.
L’iniziativa, sostenuta principalmente dai repubblicani, si è fermata a 54 voti favorevoli contro 45 contrari, senza raggiungere la soglia dei 60 necessari per procedere.
L’episodio non è solo una battuta d’arresto per i settori più filo-israeliani del Congresso, ma riflette dinamiche più ampie legate alla politica estera americana, ai rapporti con Israele e alle tensioni interne tra i due principali partiti. Inoltre, il voto si colloca in un contesto di crescente instabilità istituzionale sotto la presidenza di Donald Trump, il cui ritorno alla Casa Bianca sta già avendo un impatto sulle scelte del Congresso.
Il leader della minoranza democratica al Senato, Chuck Schumer, ha spiegato che, pur sostenendo la necessità di proteggere Israele, il testo proposto avrebbe creato problemi significativi, rischiando di danneggiare alleati americani e aziende che collaborano con la CPI. La proposta di emendamenti per escludere questi soggetti dalle sanzioni è stata respinta dai repubblicani, il che ha portato alla frattura tra i due schieramenti.
Nonostante il Partito Democratico si presenti spesso come compatto nelle politiche internazionali, in questo caso sono emerse divergenze evidenti. Un solo senatore democratico, John Fetterman, ha votato a favore della legge, guadagnandosi immediatamente l’elogio dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la potente lobby filo-israeliana. La sua scelta potrebbe indicare la volontà di alcuni esponenti democratici di mantenere un forte sostegno a Israele, anche a costo di rompere con la linea ufficiale del partito.
L’opposizione democratica al provvedimento riflette anche la crescente tensione tra il Senato e l’amministrazione Trump, che negli ultimi mesi ha assunto posizioni sempre più aggressive nei confronti delle istituzioni internazionali. Il tentativo di colpire la CPI è in linea con la politica trumpiana di ridurre l’influenza delle organizzazioni multilaterali e riaffermare una sovranità statunitense assoluta, anche a discapito degli alleati.
Tuttavia, il fatto che il Senato abbia bloccato il provvedimento suggerisce che all’interno dello stesso Partito Repubblicano vi siano dubbi sull’efficacia di una strategia così dura. Alcuni senatori repubblicani temono che misure del genere possano isolare ulteriormente gli Stati Uniti e danneggiare la loro posizione diplomatica. In questo senso, la decisione del Senato può essere letta come un primo segnale di possibili contrasti tra il Congresso e l’amministrazione Trump, che potrebbero intensificarsi nei prossimi mesi.
La mancata approvazione della legge non significa necessariamente che il tema sia chiuso. I repubblicani al Congresso potrebbero tentare di rilanciare un provvedimento simile con una formulazione diversa, magari cercando di includere eccezioni che possano attirare più consensi tra i democratici.
D’altro canto il voto suggerisce che la politica estera degli Stati Uniti sta diventando un campo di battaglia sempre più acceso tra le diverse fazioni del Partito Democratico e tra i repubblicani stessi. Se Trump continuerà a spingere per un approccio aggressivo verso le istituzioni internazionali, potrebbe trovare resistenza non solo dai democratici, ma anche da una parte del suo stesso partito.
In conclusione, il blocco delle sanzioni alla CPI è un segnale di possibili fratture all’interno del Congresso, che potrebbero influenzare le scelte della politica estera americana nei prossimi mesi. L’amministrazione Trump dovrà valutare con attenzione come gestire questi equilibri per evitare che le divisioni interne possano compromettere la sua agenda internazionale.
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