“Porta bene”. “Allegria”.
Pochi “incidenti” come il vino che si versa su una candida tovaglia viene considerato un caso fortunato. Alzi la mano chi non si è mai trovato in un piacevole frangente del genere.
Vero e proprio contraltare dell’olio versato e del sale caduto, il vino che si espande a macchia sulla tavola è da sempre sinonimo di felicità, allegria, fortuna, abbondanza e chi più ne ha più ne metta.
Da dove arriva tutto questo ottimismo? Le ipotesi più accreditate fanno risalire questa interpretazione benigna del vino versato a ragioni di tipo economico. E a questo proposito ricordiamo, rimanendo nell’ambito dei detti popolari, l’antico proverbio toscano che recita ”mercante di vino mercante poverino …”
E’ certo comunque, al di là di ogni giusta o errata interpretazione, che il vino nel Mediterraneo, e in modo particolare in Italia, non è mai mancato: i primi coloni greci, quelli che si insediarono agli inizi del secolo VIII a. C. nelle terre denominate successivamente Magna Grecia, chiamavano i suoi abitanti Enotri, un nome che è tutto un programma …
Il grande uso di vino in queste località ci viene confermato dall’Odissea, nel IX canto Omero racconta dei Ciclopi, che essi “nulla piantano con le loro mani, né arano; tutto cresce per loro senza semina né aratura: e grano e orzo, e viti che producono vino dai grossi grappoli, e la pioggia di Zeus li rigonfia”.
Il vino sarebbe stato quindi presente in abbondanza. E dunque, se ne posso avere tanto a disposizione, che differenza può fare versarne un po’ sulla tavola?
La perdita economica è ancora più irrilevante se si pensa che nell’antichità il vino doveva essere consumato, come scrive Maria Josè Garcia Soler in L’avventura del vino nel bacino Mediterraneo attraverso “una pratica specifica, la miscelatura con l’acqua.
In genere si propende a miscele in cui prevale l’acqua.
La più comune è quella che prevede “cinque parti d’acqua e due di vino.” Bere il vino puro era in ogni caso considerata cosa disdicevole. Non è un caso se la figura generalmente più collegata al consumo del vino pretto (puro) è quella del barbaro, in particolare lo scita come ci indicano espressioni del tipo “bibita scita”, “bere al modo scita”, “fare lo scita”, con le quali si fa riferimento al consumo di vino puro o in ogni caso di miscele troppo forti.
A tale proposito un mito narra “che quando Dioniso portò la vite sulla terra, gli uomini, non conoscendo il pericolo che ciò poteva portare alla pazzia, godevano, senza paura, del vino, che consumavano senza mescolare derivandone da ciò, per loro, del delirio e dei malori che li lasciava a terra come morti. Ma un giorno, mentre un gruppo di questi beveva in riva al mare, scoppiò una tempesta e l’acqua della pioggia riempì un recipiente nel quale era rimasto un po’ di vino. Quando il tempo si rischiarò, gli uomini assaggiarono quella miscela e la trovarono piacevole e di giusta gradazione e da quel giorno bevvero il vino non più puro ma mescolato nelle dovute proporzioni”. Al di là del mito è certo, in ogni caso, che il vino, in tali epoche veniva essenzialmente “collegato a un’occasione particolare, il symposion, un momento importante nella vita sociale, un’occasione allo stesso tempo festiva, culturale, ma anche pedagogica. Il simposio infatti conserva una serie di regole più o meno fisse che gli danno un carattere altamente rituale. Una volta finito il pasto propriamente detto, si tolgono le mense, si pulisce la sala e i commensali si lavano le mani. Poi si rimettono le mense con dolci, frutta, mandorle, mieli e formaggi e si mescola il vino con l’acqua, calda d’inverno e fredda d’estate … Subito dopo si elegge il presidente del banchetto, il simposiarca, che aveva la funzione di determinare la proporzione in cui doveva realizzare la miscela di vino ed acqua”.
E’ naturale quindi che, trattandosi di un prodotto presente in abbondanza che viene principalmente consumato, tra l’altro diluito, durante delle cerimonie di festa, il suo versamento non può portare allegria e fortuna. Una conferma indiretta di ciò viene dalla descrizione di un gioco, il kotabos, di origine siciliana. I giocatori dovevano colpire un bersaglio – in genere in equilibrio precario – con il vino rimasto sul fondo della propria coppa. Anche Platone fa riferimento a questa credenza quando ci racconta, a proposito che “essi bevono vino … sia le donne che gli uomini, e lo versano sui vestiti e pensano così di avere una bella e fortunata abitudine”.
Una traccia di questa valenza simbolica positiva sembra presente anche nell’Eneide, precisamente nel brano in cui Didone organizza un gran banchetto in onore di Enea. In questa occasione, prima di passare la coppa del vino agli ospiti e prima di bere essa stessa, la grande e bella Regina, ne versa un po’ sulla tavola imbandita. Dice il Bartoli (Tocca ferro 1994) nel suo libro: “ certo nel passo virgiliano non si fa nessuno accenno esplicito ad un significativo propiziatorio dello spargimento del vino sulla tavola, e tuttavia il carattere cerimoniale e simbolico dell’azione appare chiaramente delineato”.
Secondo G. Vidossi (Saggi e scritti minori di folklore, 1960) il significato beneaugurale dello spargimento del vino è ben visibile anche in un episodio del Satyricon di Petronio. Nell’episodio in questione succede che tre servitori di Trimalcione, il ricchissimo padrone di casa organizzatore dell’incredibile ed interminabile banchetto, dopo aver terminato i preparativi litighino tra di loro proprio mentre stanno bevendo del vino. La bevanda cade copiosa sulla mensa lasciando una indelebile traccia. Trimalcione invece di arrabbiarsi con i tre servi, si rallegra di ciò vedendo nel vino versato un omen faustum, un presagio favorevole al proprietario della mensa, ossia a lui stesso.
Secondo D. Priori (Folklore abruzzese, 1964) invece il significato scaramanticamente positivo dello spargimento del vino è da ricollocare anche ad antichissimi riti associati al culto di Bacco, al quale veniva “sacrificato” il primo vino dell’anno. Lo stesso autore propone un’altra ipotesi, da lui stesso creduta meno convincente della prima; in tale interpretazione Priori ipotizza che “il pregiudizio posi su un principio veristico in quanto il versamento, lo spargimento, l’effusione non possono verificarsi se non quando il liquido abbonda, onde il presagio dell’abbondanza”.
Anche nella tradizione biblica il vino è innanzitutto segno e simbolo di gioia e in genere di tutti i doni che Dio fa agli uomini.
In particolare nel Nuovo Testamento il vino rappresenta il sacrificio di Gesù che viene rinnovato ogni volta che si celebra l’Eucarestia tramite il Calice del Sangue di Cristo. Partendo da questa simbologia sacrificale, che sostituisce il vino al sangue, F. Albergamo (Mito e magia 1970) propone un’ipotesi religiosa sull’origine della credenza.
Secondo tale interpretazione, poiché nei primi secoli del Cristianesimo la rievocazione dell’ultima cena di Cristo veniva celebrata bevendo vino, il rovesciarsi di questo sulla mensa rappresentava simbolicamente l’effondersi della grazia divina.
Infine una curiosità apparentemente contraddittoria.
L’unico gesto negativo legato al vino è quello di versarlo servendosi della sinistra. Nel mondo contadino questo gesto è infatti considerato, da sempre, rischioso ed offensivo, significando segno di tradimento.
La contraddittorietà è però solo apparente dato che in questo caso la sfortuna non è legata al vino, bensì al versarlo con la mano sinistra. Nel suo significato simbolico “sinistra” equivale a funesto, infausto, avverso, sfavorevole. Non è certo un caso che la terminologia usata nel campo delle assicurazioni e della cronaca nera chiamino “sinistro” una disgrazia.
Ma la Elly Schlein, secondo voi, conosce tutte queste scaramanzie?
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