La storia del generale libico che era ricercato dalla Corte penale internazionale ed è arrestato in Italia e subito rimandato in patria ha portato all’esasperazione i rapporti, già molto tesi tra politica e toghe. Soprattutto dopo la notizia dell’inchiesta nei confronti della premier e dei ministri. Partendo dai dati di cronaca, con Paolo Borgna, magistrato di lunga esperienza e apprezzato saggista, abbiamo ragionato di equilibri del potere, di quanto una procura possa esprimersi sulle scelte politiche e delle domande (sul loro ruolo) che dovrebbero farsi tanto i magistrati quanto i politici.
Con il caso di Osama Almasri sembra che i toni, tanto del governo quanto della magistratura, siano più accesi del solito. Che idea si è fatto?
Questo caso ha una sua peculiarità. Pare evidente che ci sia stata una scelta politica, quella di restituire alla Libia questo signore e non eseguire il mandato della Corte dell’Aja. Penso che sia una scelta legittima da un punto di vista politico, ma al contempo veramente scellerata. Chi sa cosa succede nei lager libici non può che rimanere scandalizzato. È stata una scelta di realpolitik: lo si dica chiaramente, poi saranno gli elettori a dare un giudizio quando saranno chiamati al voto. Non mi scandalizzo per la realpolitik, che ha salvato tante volte l’Italia, ma mandare a casa sua un signore che torturava e faceva torturare i suoi prigionieri, facendo sentire alla famiglia del torturato i suoi pianti, non può che indignarmi. Insomma, trovo assolutamente rivoltante la scelta del governo.
Per quanto non la condivide, la definisce una scelta politica. Se è tale, però, la procura di Roma ha sbagliato a indagare la premier e i ministri?
So come funziona il Tribunale dei ministri perché nel ‘93-’94, da giudice del tribunale di Torino, sono stato estratto a sorte per farne parte. È un tribunale che ha funzioni di giudice istruttore, come era nel vecchio rito prima dell’approvazione del nuovo codice di procedura penale. Se, prima del 1989 (anno di entrata in vigore del codice Vassalli, ndr) mi veniva denunciata una cosa che per me non era reato, da pm iscrivevo nel registro degli indagati la persona denunciata e contestualmente chiedevo al giudice istruttore l’archiviazione. Non avvisavo la persona denunciata di aver chiesto l’archiviazione per un fatto che le era stato attribuito. Perché dico questo? Perché se fossi stato il pm nel caso Almasri, essendo la scelta del governo eminentemente politica, avrei rimesso, sì, gli atti al tribunale dei ministri chiedendo, contestualmente, l’archiviazione.
Molti magistrati, dicono, però che l’inchiesta di Lo Voi è un atto dovuto.
Credo che alla fine anche lui chiederà l’archiviazione. Ha scelto di fare questo passaggio intermedio che, a mio avviso, poteva evitarsi. Poteva chiedere direttamente l’archiviazione, senza avvertire gli indagati. Quanto all’atto dovuto, probabilmente l’iscrizione nel registro degli indagati era tale. Ma se ci fosse stata l’iscrizione e allo stesso tempo l’archiviazione, senza avvisare Meloni e gli altri indagati, la ricaduta politica di questa scelta sarebbe stata completamente diversa. Non ci sarebbe stato quel video della premier, non sarebbe sorto il caso.
Torniamo allo scontro tra politica e magistratura e, quindi, tra poteri. Stanno facendo un reciproco tentativo di esondare l’uno nel campo dell’altro, oppure è una delle due parti che, per così dire, sta esagerando?
La storia di questo scontro è lunga e nasce ben prima di Silvio Berlusconi. Ricordo quando, nei primi anni 80, Bettino Craxi disse in Parlamento “quando gli atti di un magistrato possono incidere sul listino di Borsa vuol dire che c’è qualcosa che non funziona bene”. Craxi lo dice in modo impetuoso, qualcuno potrà dire arrogante, qualcuno potrà dire particolarmente sincero, ma mette il dito su un punto fondamentale.
Quale?
La magistratura italiana ha, per anni, fortemente (e giustamente, dico io) rivendicato la propria indipendenza, invocando l’articolo 104 della Costituzione. Affronto il tema anche nel libro Una fragile indipendenza scritto con Jacopo Rosatelli. L’articolo 104 è stato impugnato dalla magistratura come fondamentale. Giustissimo, per carità. Però nella Costituzione c’è anche un altro articolo, il 101 che dice che la giustizia è amministrata nel nome del popolo. Cosa vuol dire? C’è una carenza, ma è voluta. Non viene spiegato con quali strumenti la magistratura indipendente da ogni altro potere può essere la voce del popolo in nome del quale amministra la giustizia.
Perché è una carenza voluta?
Perché la discussione sul punto sarebbe stata lacerante. Il Pci temeva che una vittoria della Dc e dei suoi alleati potesse creare un esecutivo troppo forte e, quindi, una magistratura molto staccata dall’esecutivo potesse essere utile. Allo stesso modo, nel ‘46, le sinistre alleate avevano avuto la maggioranza in molte elezioni amministrative. Eravamo alla vigilia dell’approvazione della Costituzione e nessuno poteva prevedere chi avrebbe vinto, neanche la Dc. Avere una magistratura che non fosse troppo vincolata al principio della sovranità popolare poteva far comodo anche ad Alcide De Gasperi. Questo principio, dunque, non è stato dettagliato. Eppure c’è. La magistratura quanto ha riflettuto su questo principio? Sul fatto che essere indipendenti significa anche essere responsabili? Lo ha fatto solo in un momento.
Un momento non recente. Ce lo racconta?
Una parte minoritaria della magistratura, quella composta dai fondatori di Magistratura democratica, a un certo punto si è chiesta: cosa vuol dire amministrare la giustizia in nome del popolo? I grandi vecchi di Md avevano colto il problema. Eravamo nel 1987, non c’era stata ancora Mani Pulite, ma c’era stato il terrorismo e poi, dal 1989, il cuore del processo erano diventate le procure. Dunque gli esponenti storici di Md si chiedevano, dal momento che era aumentata la sua rilevanza sociale della magistratura rispetto a quanto previsto dalla Costituzione, quale legittimità avesse un magistrato con così tanto potere. Si ponevano delle domande che se le ponessi io oggi in un’assemblea dell’Associazione nazionale magistrati verrei trattato come un signore che entra in Chiesa bestemmiando. Il quesito è uscito da ogni discussione.
E, nel mentre, ci sono state molte riforme.
Il mondo, nel mentre, è cambiato così tanto. Il magistrato non è più quello descritto da Piero Calamandrei. Ci si deve, a questo punto, porre il problema (pur tutelando al massimo l’indipendenza) di trovare delle forme di responsabilità per le scelte discrezionali enormi che fanno? Io penso che avremmo dovuto porcelo da vent’anni.
Perché la magistratura non se lo pone?
Perché ha paura della subordinazione all’esecutivo. Perché il problema è che qualsiasi forma di responsabilità passa per il controllo dell’esecutivo. È una paura fondata, ma si deve affrontare. E, invece, ci troviamo in una situazione in cui un atteggiamento fortemente corporativo dei magistrati ha fatto sì che ci si opponesse al diritto di voto degli avvocati sulla valutazione di professionalità dei magistrati. Questo è stato un errore pazzesco: una riforma del genere era stata proposta negli anni 60 dalla sinistra.
Come si può esercitare il controllo su eventuali errori dei magistrati? C’è chi dice che i giudizi disciplinari non bastano perché le sanzioni sono poche.
Non ho ricette magiche, ma su questo si deve lavorare. Chiaramente, se una volta una persona viene rinviata a giudizio e poi assolta, questo significa che il sistema del processo funziona bene ed è il segnale dell’indipendenza del giudice rispetto al pm. Ma se un pm sbaglia nove volte su dieci la sua accusa, forse qualche elemento di riflessione deve esserci. Il problema principale non è la contiguità culturale tra il pm e il giudice del dibattimento ma tra il pm e il giudice per le indagini preliminari. Un imputato innocente non è rovinato dal processo ma da indagini in cui, anche per reati non gravi, si va a violare la sua privacy. Portare via a una persona il computer sarà anche utile per le indagini, ma per reati non gravi può avere un impatto fortissimo sull’indagato. Stesso discorso vale per le intercettazioni. Il magistrato deve far esistere insieme vari diritti: la repressione dei reati e la libertà del cittadino, che non può essere compressa così tanto per tutti i tipi di reato. La magistratura ne discuta a fondo, insieme all’avvocatura e al mondo accademico.
Come mai, a differenza di tanti suoi colleghi, insiste così sulla collaborazione con l’avvocatura?
Perché con l’avvocatura bisogna dialogare. Il codice Rocco, il codice penale fascista, quel monolite autoritario che avevamo, è stato smantellato più che dalle riforme, dalla Corte costituzionale. Pensiamo all’adulterio solo per le donne, al matrimonio riparatore. Dietro le sentenze della Corte costituzionale che smantellavano questi vecchi arnesi reazionari c’era sempre un giudice, magari di un tribunale di provincia. Dietro a quell’ordinanza del giudice c’era sempre l’istanza di un piccolo avvocato di provincia che sollevava la questione. Si è creato, quindi, negli anni che precedono il ‘68 un dialogo culturale tra quella generazione di giudici e quella generazione di avvocati. Che ha prodotto un magnifico risultato. Se oggi avvocati, magistrati e professori riuscissero a discutere e anche litigare per trovare soluzioni e non per erigere barricate non saremmo a questo punto.
E nell’ambito di questo dialogo la politica ha uno spazio?
Certo. La politica dovrebbe succhiare come linfa il risultato di questo dibattito. Una politica seria guarda al dialogo della società civile, delle professioni, della cultura come a un patrimonio a cui attingere. Dopo quelle sentenze prima menzionate ci sono state delle riforme. Io sono molto fermo nel dire che la politica deve rivendicare la sua autonomia, però una politica fatta non solo di apparati deve nutrirsi della discussione. Se, però, questo dialogo non c’è, la politica fa queste schermagliette che stiamo vedendo da 30 anni.
In questo momento uno dei punti di scontro principale è la separazione delle carriere. Perché per il governo è così importante? E perché la magistratura si oppone con tutta questa forza?
Sono stato sia giudice che pubblico ministero, se dessi la mia opinione sulla separazione delle carriere sarei un testimone inattendibile. Posso dire che sono a favore di una circolarità della professione. Quando si invoca, però, la comunanza della cultura della giurisdizione bisognerebbe tener presente che della cultura della giurisdizione fanno parte anche gli avvocati. Allora cerchiamo di immettere anche loro nel circuito della formazione professionale anche loro. Prevediamo che ci sia una piccola parte dei posti messi a concorso per l’accesso alla magistratura riservato a loro.
Abbiamo parlato molto del potere delle procure. Per il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, i pm fanno i superpoliziotti. L’affermazione che ha fatto innervosire gran parte della magistratura ha irritato anche lei?
Non penso che il pm sia un superpoliziotto, se non per il fatto che coordina le attività della Polizia. Non è una definizione che userei, perché può sembrare dispregiativa (anche se non lo è). A me non offenderebbe, ma il contesto in cui la usa Nordio ha un chiaro senso polemico.
Ha citato prima Md, che è una corrente della magistratura, a testimonianza del fatto che c’è stato un tempo in cui le correnti delle toghe hanno avuto una loro funzione culturale. Cosa è successo dopo?
Già da più di vent’anni penso, e lo scrissi su Micromega, che le strutture delle correnti, che erano state molto utili al momento della loro nascita, rischiavano di trasformarsi in strutture anchilosate e in apparati utili solo per la carriera dei magistrati, svincolate dal dibattito reale. Lo scrissi nel 2000. Mi pare che gli anni successivi, culminati con le vicende del 2019 con la crisi partita dal cosiddetto caso Palamara, abbiano confermato questa tendenza. Se l’esercizio dell’autogoverno delle toghe è inteso nel modo che abbiamo visto nelle chat emerse, è inevitabile che qualcuno dica basta alle correnti. Io, invece, dico che le correnti dovrebbero sciacquare i panni nelle discussioni dei loro padri.
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