di Lucio Leante
Il caso Almasri sembra mostrare una peculiare anomalìa culturale italiana: una generale inibizione a riconoscere ed a vedere riconosciuta una piena rilevanza giuridica e politica all’interesse nazionale e alla sicurezza nazionale. Nel caso Almasri quella difficoltà è emersa non solo nel comportamento del procuratore capo di Roma, che non ne ha tenuto conto per nulla, ma persino in quello del governo che pure aveva tutti i titoli e sicuramente le consone pulsioni patriottiche che avrebbero dovuto spingerlo ad usare quegli argomenti. Eppure non li ha usati per una strana timidezza e inibizione di cui cercheremo di scovare le ragioni.
Se una critica fondata, infatti, può essere mossa, alla linea tenuta dal governo sulla vicenda Almasri è che non ha avuto l’accortezza o il coraggio di chiarire senza esitazioni sin da subito che la decisione di rispedire quel personaggio (un generale capo della polizia giudiziaria di Tripoli, un alto funzionario del regime quindi) con volo di stato in Libia è stata presa per una ragione di stato e cioè per evitare prevedibili ritorsioni libiche che avrebbero compromesso l’interesse nazionale e la sicurezza dello Stato. Erano infatti facilmente prevedibili rappresaglie libiche sugli italiani presenti in Libia, sugli interessi di imprese italiane, tra cui l’ENI nonché sui flussi migratori verso l’Italia. Eppure l’argomento della sicurezza nazionale è stato usato come argomento secondario e solo di sfuggita nella prima spiegazione della presidente del Consiglio.
Se il governo avesse usato l’argomento della sicurezza e dell’interesse nazionale e, quindi della ragion di stato, da subito, avrebbe probabilmente (non ne siamo del tutto sicuri) se non eliminato almeno indebolito le possibilità che nell’espulsione di Almarsi qualcuno potesse vedere qualche rilievo penale e che qualche procuratore lo eccepisse, come poi ha fatto con sorprendente rapidità il procuratore capo di Roma.
Scegliere quella linea avrebbe chiuso la bocca a tutti quei giustizialisti, compresi molti magistrati, che spesso ricordano il motto ”fiat iustitia et pereat mundus”, e cioé che “il mondo (nel nostro caso l’Italia vada pure in rovina purché si faccia giustizia”. Un caso evidente del motto latino che mette in guardia dal “pro causa perdere causam”. (In realtà i giustizialisti approvano quel motto di solito solo quando ad andare in rovina non sono loro, ma altri).
Scegliendo invece di giustificare la decisione dell’espulsione di Almasri con lo stato di necessità creato dalla presunta “pericolosità” di quest’ultimo dopo la decisione della Corte d’Appello di Roma di scarcerare il generale libico, il governo è apparso timido oltre che vulnerabile agli attacchi. Esso si è privato oltretutto della possibilità di affermare un principio fondamentale: che l’ambito della giurisdizione e l’obbligatorietà dell’azione penale devono trovare un limite nella sicurezza nazionale e dello stato come prevede tra l’altro l’art. 697 (comma 1bis) del codice di procedura penale che recita: “Il ministro della giustizia non dà corso alla domanda di estradizione quando questa può compromettere la sovranità, la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato”.
Ci si deve chiedere il perché della timidezza del governo che, pure, afferma spesso con orgoglio di volere riportare in auge l’interesse nazionale, che da tempo non è politicamente corretto in Italia. Non abbiamo la palla di cristallo e non possiamo leggere nella mente dei nostri governanti, ma supponiamo che essi abbiano temuto di usare quell’argomento perché lo ritengono ancora un argomento controverso che avrebbe potuto esporli all’accusa di nazionalismo di destra (e forse di “fascismo”).
Una simile inibizione o riluttanza è rilevabile anche nel comportamento del procuratore capo di Roma. A nostro avviso egli avrebbe potuto e forse dovuto archiviare la denuncia del noto avvocato come manifestamente infondata per alcune ragioni: la prima è che essa non conteneva sufficienti indizi di colpevolezza (richiesti dall’art. 335 del c. p. p. dopo la riforma Cartabia) per procedere all’iscrizione nel registro degli indagati dei quattro membri del governo; una seconda ragione era la facile previsione che il procedimento, per la sua evanescenza e complessità politica, non approderà ad alcun risultato pratico, generando solo un conflitto tra le istituzioni, oltre che spese inutili e perdite di temo.
Una terza ragione per archiviare era che, nonostante la reticenza del governo ad usare l’argomento della ragion di stato, è evidente a tutti che è stata quella la vera motivazione dell’espulsione di Amalrsi e cioè il timore di provocare pericolose ritorsioni libiche. Il procuratore avrebbe potuto e dovuto capirlo da subito e da sé e, nello spirito della “collaborazione tra le istituzioni” avrebbe potuto e – secondo noi- dovuto archiviare e cestinare la denuncia dell’avvocato. I procuratori sono forse esenti dal dovere della collaborazione con le altre istituzioni, nell’ambito delle leggi, al fine del perseguimento del bene comune?
In un paese normale le esigenze di sicurezza nazionale sarebbero state addotte dal governo e tenute in conto da un procuratore. In Italia però a quanto sembra la sicurezza nazionale e dello stato non sembra avere una riconosciuta rilevanza politica e giuridica.
Ciò avviene – secondo noi- perché per decenni, Nazione, Patria, sentimento nazionale e patriottismo sono stati concetti ed espressioni sconvenienti e praticamente bandite nel discorso pubblico perché considerate connesse al nazionalismo e persino al fascismo dalla pedagogia e dalla retorica antifascista. Lo stesso concetto di “interesse nazionale” è stato considerato a lungo un concetto sospetto di nazionalismo dalla retorica europeista che imponeva ai governi ed ai rappresentanti italiani nell’UE di anteporre l’interesse europeo trascurando del tutto (unici nell’UE) quello nazionale.
Queste tendenze, particolarmente vive e percepibili nella sinistra italiana, sono figlie della lunga egemonia dell’internazionalismo e del rivoluzionarismo comunista sulla sinistra e sull’antifascismo italiani, ma anche di quella dell’universalismo cattolico e di quello globalista liberal.
Persino la nozione di sicurezza nazionale (e dei propri concittadini) ha subito e subisce tuttora una sorta di ostracismo ad opera dell’universalismo cattolico e della retorica globalista secondo cui la sicurezza dei propri concittadini sarebbe un nonnulla trascurabile davanti ai diritti umani degli immigrati ad essere accolti. Molti dei quali si sentono autorizzati a sparpagliarsi per il territorio italiano, a bivaccare dovunque vogliano, anche delinquendo, in una sostanziale impunità (per effetto della paralisi delle forze dell’ordine, dovuta a norme incerte e per giunta interpretate contro l’interesse nazionale da una parte ideologizzata della magistratura).
Insomma in Italia sembra esserci una peculiare e diffusa inibizione a conferire rilevanza politica e giuridica all’interesse ed alla sicurezza nazionale; una inibizione tanto diffusa da inibire persino l’attuale governo di centro destra, che se ne proclama paladino, ad affermarle apertamente e con orgoglio; tanto diffusa che anche la magistratura indipendente ha difficoltà a riconoscere rilevanza giuridica a quelle esigenze come avviene negli altri paesi del mondo.
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