C’è un aspetto che risalta ed emerge più degli altri della messinscena di M: Il figlio del secolo e The Apprentice ed è la presenza del corpo dominante, incarnato e plastico, dichiaratamente ricostruito, bello e mostruoso insieme, dei due uomini protagonisti della serie tv di Joe Wright e del biopic di Ali Abbasi. In questi due prodotti usciti uno a distanza di quasi un anno dall’altro e in un momento cruciale per gli equilibri geopolitici globali, prima ancora che identità, Mussolini e Trump sono corpi che invadono tutto lo spazio dell’inquadratura, quasi volessero fuoriuscirvi ed eliminare tutta la distanza che c’è tra noi e loro.
Due personaggi-manichino
Uno dei due, non per caso, lo fa davvero: fin dalle primissime battute della serie, quando comincia ad attirarci a sé, nelle maglie contorte dei suoi magheggi e delle sue invenzioni, il Mussolini di Luca Marinelli lascia la finzione e racconta la sua storia, come l’abbiamo desiderato, venerato, ucciso, torturato.
In una specie di percorso a ritroso nella sua vita, Mussolini ci dice che, seguendolo, saremmo potuti anche noi «diventare fascisti» come se fossimo il suo confessionale, lo spazio “sicuro” dove poter lasciar andare i propri pensieri, anche quelli più oscuri. Nel percorso di trasformazione da Benito a Duce, Mussolini agisce in maniera spudorata, diretta, rivendicando più volte questo suo desiderio di stare nel e con il popolo. Ci incanta, quindi, e manipola senza alcun filtro o mediazione.
Il Trump di Sebastian Stan fa la stessa cosa ma Abbasi decide di mantenere una forma seppure minima di separazione: mentre diventa Trump, Donald, senza rompere la quarta parete, ci fa entrare nel suo quotidiano più timidamente, con circospezione; tra lo spazio angusto del suo appartamento newyorkese, la sua impreparazione politica, goffaggine, le sue dimenticanze e disaffezioni, la mancanza di autostima causata da una figura paterna tirannica, Donald risulta, alla fine, preda di un’allucinazione che l’avrebbe portato a essere l’uomo di cui oggi sappiamo.
Due personaggi-manichino di cui però conosciamo la fattura. Due fantasmi, due anelli tra la Storia e la finzione che nelle ideologie oggi imperanti e in quei proclami divenuti istituzione continuano ad abitare il nostro tempo, come hanno sancito, d’altra parte, le ultime elezioni americane. Studiando le fattezze di queste due figure dell’immaginario collettivo, non lasciando nulla al pregiudizio morale, la scrittura M: Il figlio del secolo (la sceneggiatura è firmata da Davide Serino e Stefano Bises) e quella di The Apprentice riescono a entrare nel nostro presente tormentato.
Dentro l’umano
Nell’andirivieni tra momenti e spazi diversi, nell’ibridazione della forma – il citazionismo al cinema americano degli anni Settanta di Abbasi e il virtuosismo stilistico di Wright – arriviamo a conoscere quel lato meno superficiale e più autentico, umano, diremmo: quella cosa che aiuta a individuare ciò che sta sotto il perturbante delle immagini. In altre parole, la genesi di quel legame tra fascismo/iper-nazionalismo e capitale che avrebbe “populisticamente” conquistato le masse, la politica per l’affare e l’interesse personale, uno scambio equo, l’unico possibile, a cui sia ieri che oggi si è ceduto.
Non solo il volto pubblico autocelebrativo ma anche i rispettivi monologhi interiori sono i mezzi con cui la scrittura della serie si radica in questa genesi; non è un caso, infatti, che sia M: Il figlio del secolo che The Apprentice si concentrino su un periodo specifico della vita dei due uomini: gli anni della costruzione di quell’immagine-simbolo che avrebbe condizionato gli anni a venire, gli anni Venti e la seconda metà del secolo scorso.
Costruzione coadiuvata, in entrambi i casi, da due figure solo in apparenza di contorno ma che in realtà hanno contribuito a plasmare il modus operandi e le azioni di ciascuno dei due. Da un lato l’intelligentissimo Cesare Rossi/Francesco Russo, in cui Mussolini avrebbe identificato la sua fede politica, le sue scelte, in un qualche modo l’unico fascista in grado di moderarne gli istinti; dall’altro, la figura dello spietatissimo avvocato Roy Cohn/Jeremy Strong con la sua fame illimitata di successo, l’uomo che Trump l’avrebbe inventato: il Dr. Frankenstein e la sua creatura. Creatura che non ci avrebbe messo tanto a liberarsi del suo “dio”.
Ma oltre le assonanze di scrittura e messa a punto – o meglio, decostruzione, demitizzazione – dei personaggi, ciò che rende molto simili M: Il figlio del secolo e The Apprentice è la necessità drammaturgica di ricreare le sensazioni di due epoche ben precise.
A Joe Wright, memore senz’altro delle intenzioni del libro di riferimento di Antonio Scurati, e Ali Abbasi – aiutato nella sceneggiatura dal reporter Gabriel Sherman – non interessa una visione dettagliata dei fattori interdipendenti che hanno portato all’ascesa al potere di Mussolini e Trump.
Potere claustrofobico
La serie tv e il film ci fanno sentire, invece, tutta la claustrofobia del potere, una volta ottenuto, e la mancanza di ulteriori appigli che non siano quelli più rassicuranti, definiti, brutali dell’affarismo e della rappresaglia più violenta. Da queste due figure che sembrano riattraversarla vorticosamente, la Storia, ciò che emerge è quanto semplice sia stato lasciarsi sedurre e attrarre dai fascismi. Da tutto ciò che risuonava come vittorioso.
La macchina da presa agisce qui come una sonda che entra in ogni angolo rovistando anche tra i residui e gli angoli più macabri e il cinema e l’immagine diventano il tramite con cui la cronaca degli eventi di cento e quaranta anni fa si fa terribilmente rilevante oggi. Gli strumenti di Mussolini e Trump, i mezzi che Abbasi e Wright decidono di raccontare sembrano, ancora una volta, fin troppo familiari, con politici simili che salgono al potere e lo consolidano, con ben poco altro da mostrare.
Riformulando le categorie narrative, stilistiche con cui sono stati letti alcuni tra gli eventi più cruciali del nostro passato, M: Il figlio del Secolo e The Apprentice stanno, quindi, nella realtà storica ma la incalzano, sequenza dopo sequenza, in un climax che si fa sempre più intenso, fino a un epilogo che è solo l’inizio di un’altra storia.
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