Presidente Violante, è arrivata l’accusa di favoreggiamento e peculato alla premier, al sottosegretario Mantovano e a due ministri. Ma il governo non ha agito secondo lei, nella vicenda Almasri, spinto dalla ragion di Stato cioè degli interessi dell’Italia?
«Non c’è un atto di accusa nei confronti di questi esponenti dell’esecutivo. La Procura di Roma ha ricevuto un atto che contiene in astratto accuse penalmente rilevanti. Una legge costituzionale impedisce alla Procura di compiere qualsiasi atto d’indagine e la obbliga a trasmettere immediatamente il documento al Tribunale dei ministri, che valuta se andare avanti e per procedere serve l’autorizzazione del Parlamento».
Ma il rimpatrio del generale libico non è stata una misura di sicurezza necessaria per il nostro Stato e per il nostro Paese?
«Mi pare sia possibile. In democrazia non ci sono né poteri né diritti assoluti. Ogni potere e ogni diritto trova un limite in un altro potere e in un altro diritto. Non ci può essere un potere giurisdizionale assoluto e non ci può essere un potere politico assoluto. Il nostro ordinamento individua la categoria di atti politici che non sono suscettibili indagine giudiziaria».
Non dovrebbe essere questo il caso?
«I ministri dovranno riferire al tribunale dei ministri quali sono le ragioni per cui hanno deciso il rimpatrio immediato di Almasri. E questo probabilmente è avvenuto per motivi attinenti alla ragion di Stato che i ministri illustreranno in seguito, se lo riterranno; ma in genere si tratta di vicende coperte dal segreto di Stato di cui dev’essere poi informato il Copasir, che a sua volta è tenuto al segreto. L’ambito giudiziario e quello politico sono distinti e devono restare tali in un Paese democratico. Altrimenti, vivremmo in un sistema di sovranità giurisdizionale assoluta o in una sovranità politica assoluta, che non sono compatibili con i principi della democrazia e sono esclusi dalla nostra Costituzione».
Insomma ha fatto bene o no il governo ad agire per la ragion di Stato?
«È probabile che ci sia stata una ragion di Stato. Ma la procedura seguita dall’autorità politica sembrerebbe viziata o da un silenzio opaco o da un pasticcio procedurale».
Evitare nuove ondate di sbarchi e il taglio delle forniture energetiche dalla Libia non dovrebbe essere sufficiente a legittimare la ragion di Stato?
«Serve un bilanciamento oculato, perché la ragion di Stato cozza spesso contro diritti o poteri altrui. Si potrebbe dire che, nella vicenda in questione, il governo poteva agire meglio».
Giocando a carte scoperte?
«La ragion di Stato, se di questo si tratta e io non lo so, può essere il frutto di accordi internazionali con clausole coperte dal segreto».
Anche in democrazia, non dovrebbe prevalere su tutto il primato della politica?
«Ci sono due sovranità diverse nei regimi democratici. Una è la sovranità della politica che attinge la sua legittimazione dal consenso e alla quale spetta fare le leggi per tutti i cittadini. La sovranità giudiziaria sta nell’applicazione di quelle leggi in una situazione di totale indipendenza. Abbiamo avuto una fase, negli anni 80 cioè subito dopo il delitto Moro, in cui ha prevalso a volte la politica e a volte la giurisdizione. Poi via via è diminuito il peso della politica ed è aumentato quello della giurisdizione. Si è insomma creato uno squilibrio. Ora è in corso un tentativo di riequilibrio».
Ma il primato della politica non è il primato della democrazia?
«Senza dubbio, perché la politica deve rispondere al cittadino, mentre il giudice non deve tener conto del consenso né agire in base al consenso. La sua legittimazione sta nella legge e non nel consenso. Questo principio però si è andato un po’ perdendo, a detrimento di tutti».
Giovanni Botero, che a fine 500 scrisse il libro fondamentale su questo tema, sosteneva che l’uso della ragion di Stato è un’estensione del dovere del principe verso Dio e verso il benessere del suo popolo. Aveva ragione?
«Dio lasciamolo da parte. Il benessere dei cittadini fa parte di ciò che chiamiamo interesse della Repubblica. Bisogna valutare caso per caso. Ci sono atti politici, come la nomina di un ministro, non sindacabili dalla magistratura, anche se a volte è accaduto che la nomina da parte dell’esecutivo di un comandante della guardia di finanza è stata impugnata davanti al Tar. È inaccettabile. E poi ci sono altri atti che, considerando i limiti dell’azione giudiziaria di cui dicevo all’inizio, possono essere valutati. In ogni caso, quello della ragion di Stato è un tema delicato che andrebbe trattato, nell’Italia di oggi e di sempre, fuori dalle polemiche politiche, perché riguarda la credibilità e la stabilità della Repubblica».
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