L’inerzia prolungata dello Stato italiano sullo smaltimento illegale di rifiuti ha messo a rischio la vita dei residenti della Terra dei Fuochi

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L’inerzia prolungata dello Stato italiano sullo smaltimento illegale di rifiuti ha messo a rischio la vita dei residenti della Terra dei Fuochi. Questo è quanto ha dichiarato all’unanimità nella sentenza odierna, in relazione al caso Cannavacciuolo e altri, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo riconoscendo una violazione dell’Articolo 2: il diritto alla vita.  

Il caso riguardava lo smaltimento, seppellimento o incendio di rifiuti su terreni privati, spesso operato da gruppi criminali organizzati, nelle zone della Campania note come Terra dei Fuochi, dove vivono circa 2,9 milioni di persone. Nell’area sono stati registrati tassi elevati di cancro e inquinamento delle falde acquifere.  

La Corte ha rilevato in particolare che lo Stato italiano non ha affrontato la grave situazione con la diligenza e la tempestività richieste – nonostante fosse a conoscenza del problema da molti anni – specificamente nella valutazione del problema, nella prevenzione della sua continuazione e nella comunicazione alla popolazione interessata.

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La Corte ha stabilito, all’unanimità, ai sensi dell’Articolo 46 (forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), che l’Italia deve elaborare una strategia globale per affrontare la situazione della Terra dei Fuochi, istituire un meccanismo di monitoraggio indipendente e creare una piattaforma pubblica di informazione. La sentenza diverrà esecutiva nel caso in cui, nei prossimi tre mesi, non saranno presentati ricorsi.

A presentare il ricorso sono stati 41 cittadini italiani residenti nelle province di Caserta e Napoli in Campania e cinque organizzazioni con sede in Campania.  

La Terra dei Fuochi si riferisce a un’area di 90 comuni della Campania con una popolazione di circa 2,9 milioni di abitanti. Il termine descrive gli effetti dello smaltimento, seppellimento e/o abbandono incontrollato di rifiuti pericolosi, speciali e urbani su terreni privati, spesso combinati con incendi avvenuti nella zona. Tutti i ricorrenti hanno affermato di aver subito direttamente o indirettamente gli effetti dello smaltimento illegale, problema noto alle autorità da lungo tempo.  

Secondo le ultime informazioni, sono state istituite sette commissioni parlamentari d’inchiesta sulle illegalità nella gestione dei rifiuti. Le loro conclusioni includevano:  

  • Presenza di numerose discariche abusive nelle province di Caserta e Napoli, in particolare nelle campagne di Aversa e sulla costa Domizio-Flegrea.  
  • Lo smaltimento illegale era controllato da gruppi criminali organizzati.  
  • Quantità significative di rifiuti erano state trasportate da tutta Italia.  
  • Assistenza per i sovraindebitati

    Saldo e stralcio

     

  • Il problema era noto alle autorità dal 1988.  

Uno dei metodi di smaltimento consisteva nel depositare e seppellire i rifiuti in discariche abusive, spesso cave, corsi d’acqua o grandi fosse scavate su terreni agricoli e poi ricoperte, continuando a utilizzare il terreno per l’agricoltura. Quando non venivano smaltiti, i rifiuti erano talvolta mescolati ad altre sostanze per essere utilizzati, ad esempio, come materiale edile o compost, con impatti negativi sulle falde acquifere.  

La campagna a nord di Napoli era diventata “un ricettacolo di rifiuti di ogni tipo”. Un rapporto definiva la Campania “la pattumiera d’Italia”. Un altro la descriveva come un “disastro ambientale… paragonabile solo alla peste del XVII secolo”.  

La contaminazione da diossina aveva inquinato un’area considerevole. Concentrazioni eccezionali di metalli pesanti erano state osservate in zone come Villa Litemo, con “avvelenamento persistente” del suolo.  Tra i dati sanitari, si segnalava un forte aumento dei casi di cancro. 

Le commissioni parlamentari evidenziavano le criticità legali nel contrastare l’inquinamento, tra cui la “praticamente inesistente” deterrenza, la mancanza di “fermezza necessaria” nella risposta statale, la difficoltà di ottenere condanne per reati ambientali e i brevi termini di prescrizione. Criticavano inoltre i piani di bonifica e i lunghi ritardi nell’azione.  

Invocando gli Articoli 2 (diritto alla vita) e 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), i ricorrenti hanno denunciato in particolare che le autorità italiane, pur conoscendo il problema, non avevano adottato misure per proteggerli dallo smaltimento illegale di rifiuti pericolosi e non avevano fornito informazioni al riguardo.  

I ricorsi sono stati presentati alla Corte Europea tra il 28 aprile 2014 e il 15 aprile 2015.  

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