Negli ultimi giorni il governo italiano è stato molto attivo sul lato diplomatico e degli accordi economici nell’orizzonte di un più stretto collegamento con il Mediterraneo allargato, da Gibilterra al Golfo Persico. Un’area considerata strategica per la capacità della UE di competere a livello internazionale.
A Villa Madama, alla presenza del ministro degli Esteri Tajani e di quello dell’Ambiente, è stata firmata un’intesa con Austria, Germania, Tunisia e Algeria per il SouthH2 Corridor. Si tratta delle condutture che dovrebbero portare fino a 4 milioni di tonnellate di idrogeno verde in Europa, aiutando a raggiungere il target di 10 milioni entro il 2030.
Questa infrastruttura è parte della strategia comunitaria sulla diversificazione delle fonti di energia, e nel dicembre 2024 è stata inserita tra i progetti bandiera per l’anno in corso degli investimenti del Global Gateway. Ricordiamo come tale programma sia stato analizzato da Oxfam, Counter Balance ed Eurodad, che ne hanno rimarcato il carattere neo-coloniale e predatorio.
Sono le grandi aziende, e in generale il sistema imprenditoriale dei paesi europei a trovare vantaggio nel Global Gateway, mentre sugli altri attori coinvolti si riversano i costi sociali e ambientali di queste attività. E non a caso, a margine dell’incontro a Villa Madama, si è svolto pure un forum imprenditoriale.
Sono di certo i “prenditori” italiani a trovare il maggiore interesse nel corridoio dell’idrogeno, dato che dei 3.300 chilometri di conduttore, riadattate o costruite ex novo, 2.300 saranno nel Bel Paese. Un altro tassello di quel Piano Mattei che vuole dare all’Italia il ruolo di hub energetico della UE.
Salvatore Bernabei, direttore di Enel Green Power e Thermal Generation, ha parlato del progetto pilota che col governo tunisino punta alla produzione di idrogeno verde nel paese africano. Un’iniziativa in linea con lo “spirito di partenariato su cui si fonda il Piano Mattei“.
“L’obiettivo – ha aggiunto – è quello di integrare sempre più il Nord Africa con l’Europa, facendo dell’Italia uno snodo fondamentale per la sicurezza energetica del continente“. Tajani ha parlato di un impegno di investimento futuro che potrebbe arrivare a 400 milioni di euro, il doppio rispetto allo scorso triennio.
A questi si aggiunge l’elettrodotto Elmed, che passerà sul fondale del Canale di Sicilia e unirà Capo Bon con la stazione elettrica di Partanna, in Sicilia. Il costo complessivo è preventivato sugli 850 milioni di euro, di cui 300 saranno finanziati dal Connecting Europe Facility, il fondo comunitario per il potenziamento delle infrastrutture energetiche.
Con questi progetti, infatti, la classe dirigente europea spera di far fronte al problema che ha mandato in crisi l’industria europea negli ultimi anni: i costi dell’energia. È stato sempre Tajani a parlare di una “diplomazia della crescita” che “non può prescindere dal tema fondamentale dell’energia” per rendere le filiere competitive con gli altri grandi attori globali.
Sulla stessa scia si pongono anche gli accordi chiusi da Meloni in Arabia Saudita, alla fine della scorsa settimana. La presidente del consiglio ha firmato la dichiarazione congiunta sulla partnership strategica da instaurare con la dinastia araba, che si svilupperà largamente su vari settori, dal comparto bellico ai trasporti, dalla cultura fino a quello dell’energia, appunto.
Dei 10 miliardi di dollari di operazioni concluse a Riad, ben 6,6 miliardi sono legati a cinque accordi siglati da SACE. Tra di essi, uno è con Acwa Power, colosso saudita che si occupa di idrogeno verde e desalinizzazione, processo centrale nella produzione del primo, il quale richiede importanti quantità di acqua per l’elettrolisi.
Sempre Acwa Power ha firmato anche un memorandum con Snam, finalizzato a stabilire investimenti congiunti per la fornitura di idrogeno verde all’Europa, e anche per valutare la possibilità di creare un terminale di importazione dell’ammoniaca nella penisola, usata anch’essa nel trasporto dell’idrogeno e in questo caso collegata direttamente al SoutH2 Corridor.
Anche le intese perfezionate da Cassa depositi e prestiti e da Ansaldo riguardano progetti energetici e infrastrutturali da realizzarsi per lo più in Africa, inserite dai vertici italiani sempre dentro la cornice del Piano Mattei. Ma con Ansaldo è evidente che il focus, a Riad, si è spostato anche sul settore militare.
Fincantieri ha aperto una collaborazione con Aramco nella cantieristica civile in Arabia Saudita, mentre con Ozone for Military Industries Company cercherà di ritagliarsi uno spazio nei servizi logistici per navi militari. Elettronica S.p.A. ha firmato due intese che riguardano la difesa, l’aerospazio e la cybersicurezza.
Ovviamente, non poteva mancare Leonardo, che rinnova il memorandum già firmato a inizio 2024 ed apre la strada alla “espansione della collaborazione industriale nel campo dei sistemi di combattimento aereo e in ambito elicotteristico“, si legge in una nota dell’azienda.
Il riferimento al caccia di sesta generazione che il campione italiano delle armi sta sviluppando, insieme alla britannica BAE Systems e alla nipponica Mitsubishi, lo ha esplicitato la stessa Meloni: “siamo favorevoli all’ingresso dei sauditi nel Gcap (il nome del progetto, ndr)”, il che li integrerebbe ulteriormente nella filiera di guerra euroatlantica.
A metà gennaio Palazzo Chigi aveva già chiuso un patto tripartito con Emirati Arabi Uniti e Albania. Con esso sono stati definiti i termini di una collaborazione per lo sviluppo delle rinnovabili nel paese balcanico, “con particolare attenzione – si legge in una nota – al fotovoltaico solare, all’eolico e a soluzioni ibride con potenziale di accumulo tramite batterie“.
Collegata a questi progetti è anche la costruzione di un cavo sottomarino per il trasporto di energia sostenibile da Valona alle coste pugliesi. Un altro evidente esempio del “colonialismo verde” su cui ormai si vanno raccogliendo vari contributi (di cui Dismantling Green Colonialism è di certo uno dei più completi).
Un quadro di questa proiezione, di cui l’esecutore è Roma ma il mandante è Bruxelles, è stato presentato al Parlamento Europeo proprio il 28 gennaio, col sesto rapporto “Med & Italian Energy Report 2024“. Il documento è stato redatto dal Centro Studi SRM, collegato al Gruppo Intesa Sanpaolo, e dal Politecnico di Torino.
Il focus del testo è sul Mediterraneo come crocevia decisivo per il futuro energetico europeo, e sull’Italia come ponte naturale su questo specchio d’acqua. La UE è l’attore globale con la maggiore dipendenza da fonti esterne (il 58% del fabbisogno energetico è soddisfatto da importazioni).
Ma il nodo sottolineato è anche quello del commercio dei beni energetici, la cui geografia evolve con le tensioni geopolitiche e con il ridimensionamento della transizione verde. In particolare, il ruolo dei porti e dei colli di bottiglia (Hormuz, Malacca, Suez) di questo specifico mercato è attenzionato per le opportunità future che può offrire all’Italia.
Riportiamo un ampio passaggio della sintesi per la stampa del rapporto, preparata da Intesa Sanpaolo, partendo dai dati sui colli di bottiglia, perché mette in fila una serie di numeri e di questioni centrali per comprendere gli interessi strategici in gioco:
“Nei primi 11 mesi del 2024 sono passati attraverso Hormuz il 34% del commercio di greggio, il 14,3% dei prodotti raffinati, il 25,6% del gas ed il 18% dell’GNL. Per lo Stretto di Malacca invece è transitato circa il 33,5% del commercio di greggio insieme al 13% circa dei prodotti raffinati, al 15,1% degli idrocarburi gassosi ed al 17% dell’GNL“.
“Altro nodo cruciale nelle catene dell’approvvigionamento è il Canale di Suez. La sua posizione lo rende uno snodo regionale fondamentale per il trasporto di petrolio e altri idrocarburi; sono transitati per Suez il 5% del commercio totale di petrolio (greggio + raffinati), il 2,2% degli idrocarburi gassosi e l’1,2% dell’GNL. Valori che in prospettiva, quando avverrà la normalizzazione in Medio Oriente, potrebbero tornare ad essere ben superiori“.
“[…] I porti del Mediterraneo hanno nel tempo assunto il ruolo di nodi cruciali nella catena di approvvigionamento energetico, consentendo l’importazione e l’esportazione di petrolio, prodotti petroliferi raffinati e GNL. I porti si stanno configurando come veri e propri hub energetici e digitali oltre che logistici“.
“Accanto al ruolo di hub per le commodity fossili, i porti stanno diventano anche luoghi strategici per la transizione green e per favorire il “ponte energetico” tra Europa e Nord Africa. […] Le stime autorevoli dell’ESPO (European Sea Port Organization) hanno mostrato come la sostenibilità sarà il driver strategico degli investimenti dei porti europei nei prossimi 10 anni“.
“[…] Per i porti italiani il segmento energy vale il 35% del totale movimentato” e il 69% del traffico si concentra in 5 porti: Trieste, Cagliari, Augusta, Milazzo e Genova. Il futuro è però considerato quello dei modelli green port, che uniscono innovazione e sostenibilità nell’orizzonte della transizione energetica.
Sempre nel rapporto si legge che entro il 2026 si prevede che una nave su dieci sarà alimentata da carburanti alternativi come GNL, metanolo, ammoniaca e idrogeno. Per il GNL, i terminali di Porto Levante, Ravenna e Piombino, e in generale quest’ultimo insieme a quelli di Trieste e Augusta, che stanno integrando recenti tecnologie, potrebbero diventare dei punti di riferimento almeno continentali.
Insomma, l’inizio del 2025 ha visto svilupparsi quella catena di legami, investimenti e ‘sicurezza’ che unisce Bruxelles al Mediterraneo allargato, passando attraverso il Piano Mattei e accordi simili. Un’equazione in cui l’esternalizzazione dei confini per la gestione dei flussi di manodopera va di pari passo con intese militari e politiche energetiche predatorie.
Questa proiezione euro-mediterranea andrebbe combattuta, incrinata e ribaltata, in forme di lotta e solidarietà internazionalista che vanno fatte crescere su entrambe le sponde del mare.
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