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La tentazione di accentrare la gestione dei fondi di coesione dell’UE è un errore, sostiene l’economista Andrés Rodríguez-Pose, che ha curato per la Commissione europea un rapporto sul futuro di questa politica. Un’intervista

La Commissione europea sta valutando una rivoluzione nell’architettura generale del prossimo bilancio dell’UE, che coprirà per il settennio 2028-2034. Il modello per l’elargizione e la gestione dei fondi europei, come quelli di coesione, potrebbe subire una forte centralizzazione: “sarebbe un errore terribile”, dichiara a OBCT Andrés Rodríguez-Pose, professore di geografia economica presso la London School of Economics. 

Rodríguez-Pose ha presieduto il gruppo di specialisti di alto livello istituito dalla Commissione europea proprio allo scopo di delineare possibili riforme della politica di coesione. I lavori del gruppo, durati circa un anno, sono sfociati nel febbraio 2024 nella presentazione di un rapporto , le cui linee guida sono più attuali che mai.

Così evidenziato anche dal presidente del Comitato economico e sociale europeo Oliver Röpke, la spinta verso una centralizzazione nella gestione dei fondi di coesione – sulla falsariga dei Piani nazionali di ripresa e resilienza – potrebbe compromettere la fiducia dei cittadini verso le istituzioni dell’Unione. 

Secondo Rodríguez-Pose, “uno dei grandi punti di forza della politica di coesione è rappresentato dalle sue solide radici democratiche”. Lo abbiamo intervistato. 

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Quali dovrebbero essere secondo lei i principi guida della futura politica di coesione dell’UE?

La politica di coesione è necessaria non solo per creare un sistema più equo di sviluppo per tutta l’Unione europea, ma anche per innescare la crescita e la competitività. Non si può costruire un’Europa competitiva se non si attiva il potenziale che si trova distribuito nei vari territori: molti dei settori dinamici non si trovano necessariamente nelle grandi città.

Servono quindi politiche territoriali che migliorino la capacità e l’efficienza delle istituzioni, così da garantire una migliore attuazione delle politiche pubbliche e favorire un maggiore sviluppo economico complessivo. È fondamentale che i fondi di coesione non si trasformino in uno strumento per affrontare le emergenze, ma rimangano uno strumento che crea le condizioni necessarie per promuovere lo sviluppo: il ruolo della politica di coesione non è riparare i problemi, ma innescare il dinamismo.

Rispetto al momento in cui la politica di coesione fu creata, le sfide oggi sono diverse. Non c’è solo bisogno di affrontare la mancanza di sviluppo, ma anche di rispondere ai bisogni delle regioni che stanno stagnando in termini di crescita economica, produttività e creazione di nuova occupazione, oltre a quelle dove mancano opportunità per i cittadini. 

Verso quali direzioni dovrebbe evolvere la politica di coesione?

La politica di coesione deve continuare a investire nel potenziale delle regioni che si trovano in ritardo di sviluppo, ma anche di quelle alle prese con processi di stagnazione. Mi riferisco a regioni che sono considerate ricche, ma che di fatto non crescono da decenni perché sono afflitte dalla cosiddetta “trappola dello sviluppo”.

Oggi nell’UE ci sono 60 milioni di persone che vivono in luoghi dove il Pil pro capite è più basso rispetto al livello del 2000, e 75 milioni di persone che vivono in aree dove la crescita annua del Pil è stata inferiore allo 0,5% in questi decenni. Circa un terzo della popolazione dell’UE vive in luoghi sempre più percepiti come privi di futuro – ce ne sono molti anche in Italia, in regioni come la Valle D’Aosta, il Piemonte, la Lombardia. Dobbiamo aspettare che Cremona, Pavia o Biella diventino come la Calabria sul piano dello sviluppo prima di investirci dei fondi europei? Per contrastare il rischio di declino permanente, occorre fare degli interventi mirati. 

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Non possiamo neanche dimenticare la necessità di intervenire a sostegno delle categorie sociali che hanno meno opportunità, come le donne, i giovani e i membri delle minoranze. Questi soggetti si trovano in tutti i territori: quando parliamo di Parigi o Bruxelles, per esempio, pensiamo a regioni ricche e prospere, ma in realtà anche in queste città esistono delle aree dove ci sono meno opportunità che nel resto d’Europa. 

Un maggiore coordinamento tra la politica di coesione e altre politiche dell’UE potrebbe aiutare?

Sì, è necessario un maggiore coordinamento. Se vogliamo avere un mercato unico che funzioni, una transizione verde e digitale e un’Europa più competitiva e innovativa, non si può lasciare che gran parte dei territori dell’UE rimangano esclusi da questi processi.

La transizione verde è un chiaro esempio. È necessaria e bisogna farla velocemente, ma comporterà delle misure molto dure che avranno un impatto positivo solo nel lungo termine. Molte regioni avranno problemi a realizzare la transizione, perché si troveranno ad affrontare enormi rischi di perdita di occupazione e la loro capacità di trarre benefici dai nuovi investimenti è insufficiente.

Cosa ne pensa dell’idea di applicare ai fondi di coesione un modello simile a quello introdotto con i PNRR, cioè un unico programma nazionale per ogni Stato e investimenti legati alle riforme?

In un momento in cui si registra una crescita enorme del malcontento rispetto all’integrazione europea, sarebbe un grande errore orientarsi verso una politica – reale o percepita – diretta dall’alto verso il basso. Prima di tutto, non è detto che questo tipo di impostazione sia più efficace – anzi di solito è proprio il contrario. Inoltre, se i cittadini non vengono inclusi e sentono che la propria voce non è ascoltata, il successo dell’intervento sarà minore.

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Al contrario, la politica di coesione attualmente incoraggia la partecipazione dei cittadini e il coordinamento a livello orizzontale. Questo permette di canalizzare con maggiore inclusività le richieste della popolazione e degli agenti economici e sociali. È vero che questo tipo di politica richiede molto più tempo, ma esistono meccanismi per facilitare interventi mirati e dispiegare il potenziale dei territori.

Il Dispositivo per la ripresa e la resilienza [alla base dei PNRR, ndr] ha funzionato perché era un programma di emergenza per una situazione di emergenza. Se quello diventa il principio alla base della politica, continuerà a crescere il solco tra i cittadini e chi prende le decisioni. Vedremo molta meno efficacia negli interventi, più disaffezione verso l’UE e un’erosione della capacità di mantenere il nostro modello economico-sociale. A quel punto potremo dire addio alla nostra speranza di diventare più competitivi, compromettendo la nostra capacità di affrontare le sfide globali.

Quali sono le sue aspettative per l’imminente proposta della Commissione europea sul futuro bilancio dell’UE?

Mi aspetto che la Commissione tratti la politica di coesione come uno strumento per lo sviluppo di tutta l’Unione europea. L’Europa non può essere competitiva se i suoi territori non vanno tutti allo stesso passo. Se la politica apportasse dei benefici solo alle zone più dinamiche, avremmo prima di tutto un problema economico – staremmo sprecando il potenziale di molte aree –, ma anche politico e sociale. In una società frammentata non si può fare attività economica e crescere.

La Commissione europea dovrebbe orientarsi sul costruire una governance più trasparente e semplificata per la politica di coesione, che permetta di utilizzare i fondi in modo molto più flessibile rispetto a oggi. Il miglioramento della governance dovrebbe includere anche dei canali trasparenti per l’integrazione, la partecipazione e la coesione a livello orizzontale – cioè all’interno delle singole regioni e tra regioni diverse –, e a livello verticale tra governi locali, regionali, nazionali e l’Unione europea.

Si dovrebbe infine evitare di rendere la politica di coesione uno strumento per sussidiare o compensare le zone che non beneficiano dell’integrazione europea tanto quanto si aspettavano – lo abbiamo detto chiaramente nel nostro rapporto. Si tratta di una politica di sviluppo che deve rendere più dinamiche tutte le regioni dell’UE, potenzialmente anche nei nuovi Paesi membri.

La politica di coesione odierna potrebbe reggere un allargamento dell’UE a nuovi membri?

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L’allargamento è una sfida enorme per tutta l’Unione europea, che richiede di ripensare in modo complessivo le forme di intervento dell’UE. 

La politica di coesione è nata proprio per facilitare la crescita e lo sviluppo territoriale, integrando via via nuovi Stati membri più poveri del resto dell’Unione. Tuttavia, non sarebbe possibile applicare la politica di coesione a un’Europa allargata con i criteri che abbiamo adesso – significherebbe togliere quasi tutti gli investimenti dei fondi di coesione dagli attuali Paesi membri per destinarli ai nuovi membri. Uno scenario non ideale, né dal punto di vista politico, né da quello sociale ed economico.

 

Questo materiale è pubblicato nel contesto del progetto “Cohesion4Climate” cofinanziato dall’Unione europea. L’UE non è in alcun modo responsabile delle informazioni o dei punti di vista espressi nel quadro del progetto; la responsabilità sui contenuti è unicamente di OBCT.

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