Tornare a casa. “La fame del Cigno” di Luca Mercadante

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«Fa freddo ed è buio, le macchine passano clacsonando veloci a pochi centimetri da me. Un furgoncino malandato si ferma poco più in là; carica un gruppo di prostitute e ne fa scendere di nuove: cambio della guardia».

Desolata, come quella di Thomas Eliot, mi viene da pensare se rivado con la mente a quella striscia di terra e mare che va da Giugliano (dove sono nato) a Mondragone e oltre, laggiù dove la provincia di Caserta va a morire dove scorre il Garigliano e comincia il Lazio. E forse, più adatta ancora, è la parola devastata, usata da Carmen Gallo nella sua più recente traduzione del testo di Eliot, uscita per Il Saggiatore.

Devastata è forse come è adesso, almeno così la percepisco, desolata è come era allora, così nella mia memoria. Eliot, caro, forse desolata sta per ciò che percepiamo, un orizzonte, un lungomare, un grigiore perpetuo, una puzza che ti accompagna anche dopo ore, anni, immigrati che aspettano alle prime luci dell’alba qualcuno che li tiri su per un lavoro da mezza giornata, prostitute senegalesi, nigeriane, ragazzine, oppure le birre che bevevamo davanti ai locali del Villaggio Coppola. E, invece, devastata riguarda ciò che vediamo, e ciò che vediamo impressiona, ciò che vediamo è tutto il resto. I romanzi riusciti parlano alle lettrici e ai lettori in maniera diversa, a volte incontrano le loro aspettative, altre fortunatamente li conducono in un paesaggio, un’atmosfera, un disagio, un chiarore, una memoria. Quando ho letto La fame del Cigno di Luca Mercadante (Sellerio, 2025) ho compiuto un nuovo ritorno a casa, e ogni volta che si torna si sta bene e si sta male, ma poi ci si ferma ad ascoltare il rumore bellissimo che fa la letteratura, rumore inconfondibile che lo si senta in California oppure tra Baia Verde e Villa Literno.

Castel Volturno, invece, per quelli che ci nascono o che ci si infognano da clandestini, non è un’occasione di miglioramento. Nessuna speranza. Nessuna seconda chance. Solo un altro girone dello stesso inferno dal quale siamo partiti.

Cigno è un cognome, quello del giornalista Domenico, un uomo solo, così colmo di solitudine che il peso esorbitante del suo corpo e la sua fame sembrano venire proprio da laggiù, da quei bassifondi in cui la psiche e l’anima stabiliscono la maniera in cui le mancanze e il dolore debbano manifestarsi. Vive a Baia Verde, Domenico, in una di quelle case che d’estate erano buone a villeggiare e che d’inverno appaiono abbandonate anche se dentro ci vive qualcuno. Ha fame Domenico, ha bisogno continuamente di mangiare, per calmarsi, per dominare l’ansia, per controllare l’universo. Domenico Cigno, durante la lettura del romanzo di Mercadante, a poco a poco, pur rimanendo, almeno in apparenza, distante da noi che leggiamo, tenderà ad avvicinarci, a sembrarci amico, qualche volta fratello. Cigno pesa quanto tre di noi messi insieme ma è retto dalla stessa singola disperazione, quella che qualche volta ci ha toccati.

Il sole è morto da un pezzo, l’alba è troppo lontana e il mare non si sente, siamo alla fine.

Cigno è il paesaggio che si fa persona, contiene in sé tutte le contraddizioni che quel territorio genera, assorbe, restituisce. Veleni, tossicità, paure, umanità, degrado, miseria, senso di perdita, abbandono, molte ombre, qualche bagliore, pezzi di coraggio che egli stesso ignora di avere. Domenico è il bravo giornalista, ed è l’uomo approssimativo, è l’incosciente che non esita a seguire una pista che porta dai narcotrafficanti all’immigrazione clandestina, alle ragazze costrette a prostituirsi, che dovrebbero essere protette dalle case d’accoglienza e che invece vengono lasciate al loro destino. A un destino che viene indirizzato dagli esseri umani, che compiano o meno attività illegali.

[…] Ancora oggi, se glielo chiedi, ti risponde che non vende perché vuole togliersi lo sfizio di vedere tutto sgarruparsi giorno dopo giorno.

Cigno scrive del Napoli e di questo dovrebbe occuparsi, ma il suo istinto, oppure solo il caso, lo trascina col suo enorme peso davanti al cadavere di una ragazza, trovato in mezzo a rifiuti sversati abusivamente. Quello è l’innesco di Luca Mercadante per condurci in un territorio perso e perduto dove il confine tra ciò che legale e non lo è diventa sottile al punto di non esistere. Dove le persone che tentano di integrarsi sono vessate, ostacolate, uccise, denigrate. Dove un pezzo d’Africa si orienta lungo le coste del casertano, tra le crepe d’asfalto della Domitiana, tra lotte e segreti, tra posizioni dominanti e piccole grandi catastrofi.

L’indagine che si trova a svolgere suo malgrado Cigno lo porta nei posti più sperduti e sordidi della cattiveria umana; eppure, in quella melma, il giornalista, trova sponda e soccorso in alcuni altri azzeccatissimi personaggi come l’ex tossico Tony, o come l’aspirante giornalista Caterina, o come Jana, avvocata, immigrata, madre, vedova. E poi figure equivoche, boss africani, suo padre, strani poliziotti, guardie forestali dall’animo oscuro come i canali che si moltiplicano pieni di ogni cosa ai lati del Volturno.

Sembra quasi che vada tutto bene, che sia estate.

Tra alberghi abbandonati, finestre con la vernice scrostata, basi militari decadenti, Domenico Cigno e il suo piccolo esercito, indagano su stupri e orrori e su loro stessi. Domenico investe su di sé e su quei giorni invernali ogni residua speranza, ogni piccolo segnale dell’uomo che è stato e di quello che non vorrebbe essere. Tira pugni e parole come quando boxava in una palestra di Giugliano. Se è vero che il giornalista, a cinquant’anni, ha lasciato il meglio della vita dietro di sé, è anche vero che si attacca a questa storia come a un salvagente, e con il naso a pelo d’acqua, tra la puzza di bufale e scorie, tra una ragazza che muore e una da salvare, comincia di nuovo a respirare.

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La fame del Cigno è un romanzo bellissimo. Mercadante racconta il male e la disperazione, lo fa con i suoi personaggi fragili ma luminosi, lo fa con un territorio che pare non avere più nulla da offrire, lo fa tenendo tutto insieme, in un unico indimenticabile paesaggio.

 



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