Per una nuova politica industriale

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Per affrontare efficacemente la crisi climatica è necessaria una nuova politica industriale, in grado di plasmare i mercati, non solo risolvere i loro fallimenti, di forgiare un nuovo contratto sociale tra il settore pubblico e quello privato e tra capitale e lavoro. La riflessione di Mariana Mazzucato su ENERGIA 4.24.

La dimensione industriale della transizione energetica è stata a lungo trascurata, in particolare dall’Unione Europea.

Solo la Cina pare averla seriamente presa in considerazione fin dai primordi, riuscendo a raggiungere un primato difficilmente scalfibile lungo pressoché tutte le filiere delle tecnologie della transizione. Dalle materie prime (come le famose terre rare o il nichel, ma anche i meno monitorati zinco, fosforo, grafite , manganese o il più comune ferro), ai prodotti intermedi (in primis, le batterie), fino ai prodotti finiti: le auto elettriche, i pannelli fotovoltaici e le turbine eoliche.

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Un colpevole ritardo

Un gap di cui l’Occidente ha preso consapevolezza con colpevole ritardo e cui ha tentato di colmare con il lancio lungo le due sponde dell’Atlantico dei programmi Inflation Reduction Act negli Stati Uniti e Green Deal Industrial Plan nell’Unione Europea.

Programmi che tuttavia dopo appena pochi anni rischiano di essere rivisti se non totalmente stravolti. La commissione von der Leyen bis ha infatti inserito tra le priorità del nuovo mandato un Clean Industriale Deal per smorzare gli eccessi del Green Deal, mentre la rivoluzione annunciata col ritorno di Trump alla Casa Bianca è iniziata con una serie di atti tra cui si annovera l’Executive Order Unleashing American Energy del20 gennaio con cui intende smantellare gli incentivi alle tecnologie rinnovabili previste dall’Ira.

Provvedimenti che fanno cogliere come la politica industriale sia definitivamente tornata al centro delle agende degli Stati, sia che si intenda proseguire lungo la transizione energetica, come l’Unione Europea, sia che si voglia sterzare direzione, come negli Stati Uniti.

Nell’ultimo numero di ENERGIA (4.24), ospitiamo una riflessione sulla necessità di una nuova politica industriale dell’economista Mariana Mazzucato.

Orientare la crescita e plasmare i mercati

Secondo la professoressa dell’University College London, per affrontare efficacemente la crisi climatica è necessaria una politica industriale moderna, in grado di plasmare i mercati, non solo risolvere i loro fallimenti. Gli Stati devono resistere alla tentazione di preferire il protezionismo verde alla cooperazione globale per il raggiungimento degli obiettivi climatici. Occorre progettare politiche pubbliche che spingano le economie verso obiettivi ambiziosi, lasciando aperta la questione di come raggiungerli.

“Vale la pena ribadire l’ovvio: la crisi (climatica) non è un incidente di percorso, ma il risultato diretto di come abbiamo progettato le nostre economie, in particolare le istituzioni pubbliche e private e le loro relazioni. Ciò significa che abbiamo il mandato e il potere di riprogettarle per mettere al primo posto il Pianeta e le persone. Per farlo, però, dobbiamo andare oltre la mera correzione dei mercati e la relativa nozione di «gap di finanziamento» verso la rimodellazione dei mercati, prestando inoltre attenzione alla qualità e non solo alla quantità della finanza. Dobbiamo progettare politiche che spingano in maniera decisa le economie verso il raggiungimento di obiettivi ambiziosi, lasciando aperta la questione di come raggiungerli. Non sarà più sufficiente «livellare il campo di gioco» e trasferire denaro.

Ciò richiede un nuovo pensiero economico e un approccio moderno alla politica industriale (Mazzucato, Doyle e Kuehn von Burgsdorff 2024). I governi devono riconoscere che è doveroso impegnarsi per la crescita economica solo se è sostenibile e inclusiva. La crescita ha un tasso, ma anche una direzione. Per affrontare il cambiamento climatico, dobbiamo occuparci di entrambi. Senza crescita, non ci sono posti di lavoro; senza direzione, il lavoro può contribuire al riscaldamento globale e allo sfruttamento del capitale umano (Mazzucato e Silvers 2024). Il ruolo dei governi, in quanto custodi dell’interesse pubblico, è orientare la crescita e plasmare i mercati per un futuro più equo a zero emissioni nette.

Cosa significa? Significa riprogettare politiche e contratti; nuove partnership tra settore pubblico e privato; costruire strumenti e istituzioni adatti allo scopo; investire nei servizi pubblici”.

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Le condizionalità sono sottoutilizzate, ma non sono una novità

L’articolo inquadra la necessità di adottare un approccio orientato alla missione (par. 1) per poi esplorare le condizioni contrattuali (par. 2) “che strutturano la collaborazione pubblico-privato” e che “sono un potente strumento di cambiamento”.

“I governi dovrebbero subordinare l’accesso ai fondi pubblici e ad altri benefici (…) all’allineamento del comportamento delle aziende agli obiettivi della missione (Laplane e Mazzucato 2020). La rinascita della politica industriale, con miliardi di dollari di fondi pubblici che fluiscono verso le aziende, è un’opportunità per forgiare un nuovo contratto sociale tra il settore pubblico e quello privato e tra capitale e lavoro. Queste condizioni devono essere attentamente progettate e calibrate per massimizzare il valore pubblico, ma non devono essere così specifiche da soffocare l’innovazione (Mazzucato e Rodrik 2023)”.

“Gli appalti pubblici strategici sono un altro potente strumento” (3. finanza pubblica strategica). “Gli appalti possono creare nuove opportunità di mercato e incentivare l’innovazione e gli investimenti in linea con le priorità governative. Tuttavia, gli appalti pubblici si sono tradizionalmente concentrati su efficienza, equità, riduzione dei costi, gestione del rischio e prevenzione della corruzione. (…) I nuovi modelli di appalti enfatizzano i risultati, l’innovazione, il valore sociale o la produzione locale.”

La riflessione di Mazzucato approda quindi a enfatizzare la necessità di un settore pubblico dinamico (par. 4). “Investire nei team responsabili dell’implementazione della politica industriale, a tutti i livelli di governo, e prestare attenzione alla progettazione delle istituzioni in cui sono inseriti e agli strumenti a cui hanno accesso, sono aspetti fondamentali per una migliore realizzazione della promessa trasformativa di questo approccio. (…) I governi possono inoltre sviluppare capacità per misurare gli effetti moltiplicativi della politica industriale. Misure statiche come le analisi costi-benefici e indicatori macroeconomici come il Pil non riescono a catturare l’impatto più ampio delle strategie industriali orientate alla missione. Sarebbe più efficace un cruscotto di indicatori economici, sociali e ambientali”.

In cerca di un nuovo equilibrio tra Stato e mercato

“La politica industriale” conclude l’autrice “ha un grande potenziale per mettere i paesi su una strada diversa, ma solo se orienta investimenti, innovazione, crescita e produttività attorno a obiettivi climatici e di inclusione audaci”.

La riflessione di Mariana Mazzucato presenta tratti comuni con un altro importante lavoro, che viene analizzato da diversi punti di vista sullo stesso numero di ENERGIA: il rapporto Draghi. In entrambi emerge la necessità di un ruolo ancor più determinante dei governi e un progressivo restringimento del ruolo dei mercati che aveva costituito la bandiera delle politiche sino a pochi anni fa.

Quel che emergeva anche come caratteristica del Nuovo Ordine Energetico delineato nel 2022 da Bordoff e O’Sullivan l’indomani dell’esplodere della crisi energetica e dell’invasione russa dell’Ucraina: la necessità di trovare un nuovo equilibrio tra Stato e mercato.

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Il post presenta l’articolo di Mariana Mazzucato Per una nuova politica industriale pubblicato su ENERGIA 4.24 (pp. 54-58)

Mariana Mazzucato, University College London


Foto: Unsplash



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