«È isolazionista, non vede di buon occhio le alleanze, persegue un bilateralismo basato su una rigida definizione dell’interesse nazionale. Taiwan e l’Ucraina saranno un test per la credibilità internazionale di Washington»
L’ambasciatore Antonio Armellini, una vita in diplomazia. È stato portavoce di Altiero Spinelli alla Cee e collaboratore di Aldo Moro alla Farnesina e a Palazzo Chigi, è stato a Londra, Varsavia, Bruxelles, Addis Abeba, Vienna, Helsinki. Ambasciatore itinerante alla Csce (Conferenza per la sicurezza e la cooperazione europea), ambasciatore in Algeria, in India, all’Ocse a Parigi, capo della Missione italiana in Iraq (2003-2004), consigliere per le relazioni internazionali della città di Venezia.
Ambasciatore Armellini, molto si è detto e scritto sul Trump 2.0. Lei come la pensa?
Trump ha fatto più o meno ciò che aveva annunciato, mettendo in crisi quanti ritenevano che le promesse elettorali – specie le più dirompenti – sarebbero rimaste in molti casi tali e avrebbero dovuto fare i conti con la realtà. Certo, Trump è soprattutto un businessman e in per parte almeno del suo programma ha prevalso l’effetto di annuncio: la maggioranza fragile nel Congresso, le difficoltà costituzionali circa l’eliminazione (parziale) dello ius soli, la reazione di una opposizione che prima o poi recupererà dallo shock della sconfitta e dall’elaborazione del lutto, il prevedibile effetto ricochet della politica dei dazi, la militarizzazione delle frontiere. sono alcuni degli ostacoli che la sua presidenza – per quanto iper – dovrà affrontare. La ricerca di un compromesso sarà in alcuni casi inevitabile, ispirata alla logica del massimo profitto a breve, incurante delle conseguenze di lungo periodo. Un Trump pragmatico dunque? Se costretto e sempre legato alla logica della supremazia.
La presidenza Trump nasce divisiva e tale sembra destinata a restare; con gli avversari si tratterà quando serve e ci sarà convenienza, ma l’obiettivo di fondo resterà quello di una sottomissione e non di un confronto secondo le regole. Il personaggio Trump è anche una costruzione televisiva ed è utile riguardarsi The apprentice, la trasmissione che lo ha lanciato nell’immaginario del paese: un programma basato su una competizione spietata, durissima e sottoposta al controllo senza appello di un dominus assoluto, cioè lui. Al di là del dato politico, non va sottovalutata la dimensione ideologica: qualcuno ha fatto notare che, mentre nelle fotografie ufficiali gli ultimi Presidenti appaiono tutti sorridenti, Trump esibisce sempre un’aria corrucciata e aggressiva, da cui traspare l’idea di rivalsa e di predominio. Chi parla di una presidenza Trump che non potrà non acconciarsi, magari faticosamente, con le linee della correttezza istituzionale, sottovaluta che egli ha vinto grazie al supporto di una deep America – che è l’opposto esatto del deep state – la quale si riconosce nello spirito di una società di frontiera, ispirata alla logica dell’individualismo e del manifest destiny, piuttosto che a quella della democrazia di una grande potenza, capitalista nella libertà, che rivendica la sua egemonia ma è custode di un equilibrio complessivo fra le sue diverse componenti. Libertà e Costituzione viste da New York o Los Angeles sono diverse da quelle viste da De Moines o dal Montana, ed è qui che sono le radici del suo consenso. Trump dovrà fare i conti con le dinamiche di un paese complesso, come si diceva, ma attenzione a non fidarsi troppo di quella che appare da un lato una valutazione, e dall’altro una speranza vista attraverso le lenti rosee di europei che temono di diventare ancora più sudditi, neanche tanto privilegiati.
A sostegno del tycoon si sono schierati tutti i grandi capi del Big Tech, e non solo Elon Musk. E’ solo una questione d’interessi da tutelare, o nell’appoggio dei Musk, Zuckerberg, Bezos, Gates etc. c’è dell’altro?
Su tutto grava l’ombra di Elon Musk: solo un genio visionario e incontrollabile come lui potrebbe aiutare Trump a scardinare l’intero impianto politico ed amministrativo del paese, attraverso l’ancora misterioso DOGE (quello veneziano, di Doge, era sì autoritario ma era sottoposto al controllo del Consiglio dei Dieci…). Resta l’interrogativo di quanto possa durare un sodalizio fra due persone il cui ego dirompente potrebbe prima o poi portarli a una separazione clamorosa, ma la coincidenza strumentale di interessi spinge verso il perdurare dell’intesa. Quella di Bezos e degli altri sembra in primo luogo una reazione difensiva nei confronti dello strapotere di Musk, cosa che appare confermata da quanto si dice intorno al futuro americano di TikTok. Ma non soltanto. L’AI annuncia una trasformazione radicale nella comunicazione e nel mondo dei social, che sono un pilastro fondamentale dell’influenza di Trump, il quale ha interesse ad avere su tutto ciò una presenza più solida, Musk o non Musk. In filigrana, vi può anche essere una prefigurazione di ciò che Trump potrebbe avere in mente per una economia caratterizzata da una accresciuta concentrazione capitalistica, chiusa all’interno e basata su grandi gruppi in grado di imporre il proprio predominio a livello internazionale. Un modello che, se da un lato ripercorre parte della storia economica del paese, cozza con l’equilibrio dei poteri di una società democratica. E’ difficile prevedere cosa succederà: leggere le foglie sul fondo di una tazza di tè non è necessariamente un buon metodo per decrittare quale sarà la via seguita dall’annunciata rivoluzione sociale ed economica trumpiana.
In politica estera, quali saranno, a suo avviso, le priorità del 47° presidente dell’iperpotenza americana?
C’è del declaratorio in molte posizioni di Trump in politica estera: la riappropriazione e/o riconquista del Canale di Panama, la ridenominazione del Golfo del Messico come Golfo d’America, l’acquisto o appropriazione della Groenlandia, la sussunzione del Canada negli USA, sono in primo luogo mosse ad effetto ad uso interno, con una sorta di paradossale rovesciamento prospettico della dottrina Monroe, proclamata da un Paese che chiedeva di non essere ostacolato nella sua area di influenza diretta, in cambio della rinuncia ad interferire con quelle di altri, e che ora viene riproposta come il diritto di esercitare ovunque la propria egemonia, senza subire condizionamenti o interferenze. C’è però molto di sostanziale oltre che di declaratorio nella sua geopolitica. La denunzia dell’accordo sul clima di Parigi, dell’OMS e dell’Accordo OCSE sulla tassazione – premesse di altre denunce a venire – assesta un colpo gravissimo agli sforzi per contenere il cambiamento climatico e creare una rete più efficace di protezione contro le pandemie, che di per sé hanno una portata globale e potrebbero prima o poi impensierire anche all’interno degli USA. Ma non c’è solo questo. C’è la determinazione di smantellare il sistema multilaterale internazionale degli ultimi settant’anni, fondato sulle regole dello stato di diritto e della democrazia liberale, di cui gli USA sono stati protagonisti e garanti. L’America di Trump è (o vuole essere) isolazionista, guarda con diffidenza alle alleanze e persegue un bilateralismo basato su una rigida definizione dell’interesse nazionale, piuttosto che su una rete di alleanze il cui costo supera di gran lunga i vantaggi. Ciò non vuol dire, ad esempio, la fine della NATO bensì il fatto che essa continuerà ad avere l’appoggio degli USA, nella misura in cui risponderà alle sue priorità definite autonomamente. Alle alleanze internazionali viene attribuita una funzione strumentale, che si basa sul rapporto bilaterale fra potenze, portatrici ciascuna di aree di interesse di cui loro sono soprattutto responsabili. Una simile visione è necessariamente schematica e dovrà scontare il confronto con la realtà. In primo luogo, con gli alleati europei, che avranno ben poche alternative a quella di uniformarsi. In secondo luogo, con le grandi potenze emergenti come l’India, il cui concetto di influenza è molto meno vicino a Washington di quanto si pensi. In terzo luogo, con il magma dell’Africa. In quarto luogo, e soprattutto, con il macigno cinese e della Russia. Con Pechino c’è una partita aperta economica in cui forse si sottovaluta la resilienza cinese, ma c’è soprattutto il dilemma di Taiwan. Permettere a Xi di riprenderne il controllo andrebbe a scapito di due elementi fondamentali. Il primo è che Taiwan non è solo un importante paese industrializzato, ma anche uno dei maggiori centri mondiali della produzione di tecnologie avanzate e cederne il controllo alla Cina creerebbe uno scompenso rilevante nei rapporti di forza relativi. Il secondo è che la garanzia di sicurezza per Taiwan è la pietra di paragone della credibilità internazionale di Washington; cedere potrebbe anche essere in linea con l’approccio transactional di Trump, ma creerebbe un vulnus difficilmente controllabile nell’immagine di potenza del paese, ed è proprio sulla capacità di influenza che determinano i rapporti le grandi potenze negli assetti bilaterali che Trump e i suoi consiglieri hanno in mente.
E sul fronte delle guerre in corso?
Il discorso vale ad ancor maggior ragione per l’Ucraina. La guerra ha un costo che l’opinione trumpiana sopporta malvolentieri, va verso un rafforzamento di Putin – che starebbe per impadronirsi delle risorse minerarie, vera riserva di potere del paese – senza cancellare tuttavia del tutto una Ucraina indipendente. Il “patto anti Ucraina” che potrebbe tentare il Presidente americano correrebbe il rischio di un suo indebolimento ulteriore, coinvolgendo un’area più vasta e aprendo la porta a nuove interferenze nella sovranità comunque fragile di paesi vicini. Finendo per rendere ancora più instabile un equilibrio che si vorrebbe invece consolidare. Il colpo per la credibilità internazionale degli USA sarebbe certo non meno grave che nel caso di Taiwan, così come inevitabile sarebbe una crisi che scuoterebbe le fondamenta della NATO da cui, è bene ricordarlo anche se non tutti a Washington ci pensano, verrebbe un rovesciamento in senso negativo degli equilibri con Mosca. Ciò detto, i margini per un accordo esistono, sebbene il pericolo forse maggiore risieda nell’ego smisurato dei due contendenti. Per Putin, l’Ucraina non è solo un elemento chiave della sua strategia di riconquista neo- sovietica o post-zarista, ma anche una componente fondamentale del suo consenso interno che, diversamente da quanto molti si illudono in Occidente, resta solido. Quanto a Trump, l’alternativa fra un good deal in termini economici e di consenso interno, e la perdita di credibilità dovuta all’abbandono di un impegno che lo indebolirebbe anche nei confronti di Putin, presenta un dilemma che egli non sembra aver ancora affrontato in un senso o nell’altro.
Trump e l’Europa. C’è da temere?
L’Europa appare un vaso di coccio esposto ad un ridimensionamento che ne sancirebbe definitivamente l’uscita dal novero dei protagonisti mondiali (confermando al tempo stesso l’inanità delle ambizioni di questo o quello dei suoi membri di giocare un ruolo autonomo di qualche efficacia). Diverso sarebbe il discorso se fosse in grado di affermare una propria visione politica, cosa che sarebbe possibile solo scomponendo la costruzione europea in percorsi autonomi e paralleli al suo interno, capaci di dare corpo al tante volte evocato “momento Hamiltoniano” in economia e al modello spinelliano di sicurezza e difesa del Manifesto di Ventotene. Così non è, per cui tanto vale parlare di altro.
Ambasciatore Armellini, in definitiva, che America incarna Donald Trump?
Una giovane donna intervistata in uno dei tanti cortei celebrativi della vittoria di Trump ha detto a chi le chiedeva il perché del suo entusiasmo: “So bene che la sua condizione è abissalmente diversa dalla nostra. Lui è ricchissimo e noi non lo siamo. Ma lui ci dice che siamo tutti eguali e abbiamo la stessa possibilità, in un paese libero come lo sono gli USA, di diventare a nostra volta ricchi e felici; è questo il sogno americano che lui difende e io, appoggiando lui, difendo il mio sogno”. Sono frasi che meglio di altre spiegano perché Trump ha vinto e illustrano la specificità del modello americano, che è certamente democratico, ma altrettanto certamente diverso da quello europeo. Il primo indica una società ispirata dall’etica protestante, in cui l’individuo è il protagonista assoluto: successo e fallimento sono solo nelle sue mani e il successo è testimonianza della benevolenza di Dio (non ha caso, Trump è tornato più volte su questo punto). Il modello europeo è altrettanto democratico, ma in esso l’individuo si muove all’interno di una società che garantisce a tutti pari possibilità e diritti; è il modello basato sui diritti fondamentali all’istruzione, alla salute, alla, previdenza, alla sovranità della legge, che ne definiscono la dignità e il ruolo. Questo modello, basato sulla solidarietà e il welfare, è una conquista recente, Il vento dell’individualismo che proviene dall’Atlantico e trova sempre più sponde in una destra tanto in crescita quanto immemore delle radici della sua prosperità, rischia di mettere in discussione una società su cui in Europa abbiamo costruito da poco meno di un secolo una civiltà senza eguali nella storia. È questo il rischio che – prima e al di là di tutto il resto – sembra a me correre oggi l’Europa.
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