“Prese dalla tasca una moneta da venticinque centesimi (…) Sul rovescio, la testa del Grande Fratello, i cui occhi anche qui parevano seguirvi. E lo stesso valeva per i francobolli, le copertine dei libri, gli stendardi, i manifesti, i pacchetti di sigarette. Quegli occhi vi seguivano ovunque e ovunque vi avvolgeva la stessa voce. Nella veglia o nel sonno, al lavoro o a tavola, in casa o fuori, a letto o in bagno, non c’era scampo. Nulla vi apparteneva, se non quei pochi centimetri cubi che avevate dentro il cranio”.
George Orwell, 1984
I diritti creano agio, conforto, sono le fondamenta di una realtà idilliaca che spesso non conosce la versione passata di sé.
La memoria storica che li caratterizza si fa via via un ricordo lontano: più questi doni vengono tramandati, più l’origine di essi si fa nebulosa fino a diventare, per alcuni, il corredo minimo con il quale si viene al mondo: qualcosa di così radicato nelle nostre vite da dimenticarci persino di averlo. O peggio, di poterlo vedere svanire nel nulla.
Chi penserebbe mai di poter perdere il diritto a costruirsi un proprio pensiero?
A primo impatto, nemmeno le parole di George Orwell sembrano prospettare uno scenario del genere: in una realtà dove il Grande Fratello può vedere e sentire ogni cosa, ai protagonisti del romanzo non rimane che rifugiarsi nella propria mente. L’unico luogo dove la libertà esiste ancora. Quella che però non sembra altro che una gabbia dorata, più che conservare il pensiero, lo annichilisce: incapace di evolversi nel tempo, esso è destinato ad essere soppiantato da altri pensieri fini a loro stessi.
Finchè rimane inespresso, ciò che pensiamo non può sopravvivere. Sono poche le posizioni talmente forti da resistere nel tempo senza dover essere influenzate, modificate, confrontate con le posizioni di chi ci sta intorno.
Nel corso della storia, abbiamo sentito l’esigenza di riunirci e di condividere le nostre riflessioni. Una risposta a questo bisogno è stata data dalle Università che via via sono divenute per i giovani una vera e propria culla del pensiero, specialmente di quello politico. Un luogo stimolante e sicuro dove le idee possono essere discusse, arricchite e condivise con il resto di una comunità che si sente propria. Un contesto nel quale è possibile evolversi come persone, scontrandosi con realtà differenti e scoprendo i punti di contatto e le differenze che intercorrono tra quello che si è e quello che sono gli altri. Tutto questo però funziona solo nel momento in cui l’università resta un ambiente che tutela studenti ed insegnanti nell’espressione delle proprie idee, permettendo che queste non vengano condivise all’infuori del contesto che le protegge e supporta.
Tale ruolo delle università è stato minacciato dal recente DDL Sicurezza, già approvato dalla Camera, il cui articolo 31 prevede che le università italiane siano obbligate a prestare collaborazione ai servizi segreti (ossia DIS, AISE e AISI) anche in deroga alle normative sulla privacy.
In questo modo, i servizi segreti potranno ottenere dagli atenei informazioni (di tipo non meglio specificato nel progetto di legge) sui propri studenti, ricercatori e docenti anche in merito alle loro posizioni politiche, in nome della sicurezza nazionale. Tutto questo senza potersi opporre. Una motivazione, quella della sicurezza dei cittadini, valida a tal punto da permettere la violazione del loro diritto alla privacy e alla riservatezza.
Qualcuno leggendo di questa notizia e delle varie manifestazioni che si sono tenute in Italia per opporvisi si sarà posto una domanda fondamentale, cruciale nel discorso che stiamo facendo: “se non avete nulla da nascondere, qual è il problema?” Ciò che mi ha sempre affascinato nello studio dei diritti è quella nicchia delle libertà negative, che ci legittima a non porre in essere un comportamento contro la nostra volontà, che spesso viene trascurata e messa da parte: forse ci sentiamo più liberi quando abbiamo la possibilità di fare qualcosa anziché di non farla.
Forse pian piano quel pacchetto di diritti-base che ci è stato fornito fin dalla nascita non ci sembra poi così scontato?
Che cosa ci resta della libertà di pensiero se questa è esercitabile solo nella misura in cui le nostre idee non escono dalla nostra scatola cranica?
L’università diventa un terreno arido se non è più possibile coltivarvi le proprie idee per paura che queste vengano diffuse e conosciute contro la nostra volontà. Se non è più possibile mettere in discussione se stessi e ciò che si pensa in un ambiente costruito appositamente per stimolarci intellettualmente e accrescere la nostra cultura, a che cosa serve studiare ed imparare?
La conoscenza ha senso di esistere solo se si è sempre nella possibilità di recepirla in modo unico e personale, lasciandoci quel margine di curiosità che ci permette di non fermarci davanti al risultato ottenuto, ma di spingerci oltre i nostri limiti. Limiti che sono superabili solo quando siamo in grado di attingere dalla cultura altrui, per quanto possa essere diversa dalla nostra. Senza paura che qualcuno ci senta e possa usare quello che pensiamo contro noi stessi.
Se le autorità possono chiederci che cosa pensiamo, quali sono le nostre idee, qual è la nostra identità e noi non possiamo opporci a questa richiesta, noi non siamo poi tanto diversi da Winston e loro non sono poi tanto diversi dal Grande Fratello.
Se il Grande Fratello ci osserva all’università, niente ci impedisce concettualmente di pensare ad un domani dove non potremo più decidere che cosa condividere o meno col resto del mondo. Se tutto questo accade, a noi non resta che rifugiarci nell’angolo più nascosto della nostra camera, lontani dai teleschermi e scrivere su un diario segreto “Abbasso il Grande Fratello!”, nella speranza che questo non ci scopra mai.
✍️ Benedetta Conti
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