Mandati di arresto per i talebani, un atto coraggioso in difesa delle donne afghane

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Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Karim Khan ha richiesto mandati di arresto per il leader supremo dei talebani, Mullah Hibatullah Akhundzada e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché responsabili del crimine di persecuzione di genere ai sensi dell’art. 7(1) (h) dello Statuto di Roma. Li ritiene “penalmente responsabili di aver perseguitato ragazze e donne afghane, così come le persone che i talebani percepivano come non conformi alle loro aspettative ideologiche di identità o espressione di genere, e le persone che i talebani percepivano come alleate di ragazze e donne. Questa persecuzione è stata commessa almeno dal 15 agosto 2021 fino ai giorni nostri, in tutto il territorio dell’Afghanistan”.I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta del procuratore, che ha anche annunciato che richiederà altri mandati di arresto per i funzionari talebani.

La CPI ha preso una decisione storica, superando i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati che si dicono democratici perché rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano, ma intanto invitano i suoi esponenti ai convegni internazionali e fanno affari con loro.

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In questi tre anni di governo i talebani e i loro fedeli emissari hanno promulgato e messo in pratica innumerevoli decreti contro le donne, le ragazze e le persone LGBTQ+, rendendole schiave segregate nelle loro case, senza il diritto di andare a scuola e di lavorare fuori casa, di vestirsi e muoversi liberamente, perfino di cantare, parlare, pregare ad alta voce, completamente nascoste e separate anche dalle altre donne, nella loro concezione fondamentalista considerate fonte di ogni male in quanto donne.

Preso atto dell’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali per il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne in cambio del loro riconoscimento, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i talebani con concessioni commerciali e aiuti economici, nella speranza di convincerli in futuro ad accettare le regole della democrazia. Né quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati.

Non ci sono talebani cattivi e talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti e la loro ragion d’essere sta proprio in questa ideologia che li accomuna. Infatti nel corso dei vent’anni di governi filoccidentali non si sono mai sciolti né amalgamati con posizioni più flessibili per trovare un loro spazio nella politica e nel governo. Non possiamo perciò contare sulla loro assimilazione futura, ma solo sulla loro sconfitta.

Plaudiamo quindi alla richiesta di incriminazione della CPI, che li smaschera pubblicamente per quello che sono: criminali che vanno arrestati e perseguiti come tali, non politici con cui trattare.

Il percorso della CPI in questa direzione sarà lungo e difficile, anche perché la Corte deve difendersi dagli attacchi di quegli Stati che vogliono minarne la credibilità e distruggerla completamente, ma è un atto che rende più difficile il riconoscimento del governo talebano da parte degli Stati che hanno aderito allo Statuto di Roma e alla istituzione della CPI.

Anche l’Italia è tra questi e vogliamo che si schieri a favore dei diritti delle donne e delle persone LGBTQ+.

Per questo il Cisda, all’interno della Campagna contro l’apartheid di genere che ha recentemente lanciato, propone una petizione rivolta al governo italiano perché questo, consapevole del suo ruolo istituzionale, si renda responsabile della difesa dei diritti delle donne presso gli organismi internazionali competenti.

Chiediamo quindi che lo Stato italiano:

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– appoggi la richiesta di inserimento dell’apartheid di genere tra i crimini internazionali nella Convenzione in discussione all’ONU e nella revisione dello Statuto di Roma

– si unisca agli Stati che chiedono alla Corte Penale Internazionale e alla Corte Internazionale di Giustizia di chiamare i talebani alle loro responsabilità

– non dia riconoscimento, né giuridico, né di fatto, al regime talebano.

 

 



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