l’umanità sembra abbia smarrito l’impronta divina

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In concomitanza con il Giubileo del mondo della comunicazione che si conclude oggi a Roma e all’indomani della pubblicazione del Messaggio di Papa Francesco in vista della Giornata mondiale che si celebrerà il prossimo 1° giugno, Portalecce approfondisce i temi posti dal Pontefice con Michele Partipilo, già direttore della Gazzetta del Mezzogiorno, esperto in deontologia e oggi editorialista del Nuovo Quotidiano di Puglia.

 

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Dott. Partipilo, nei giorni del Giubileo degli operatori della comunicazione, il Messaggio del Santo Padre per la Giornata annuale – “Condividete con mitezza la speranza che sta nei vostri cuori (cf. 1Pt 3,15-16)” -, ha denunciato come oggi troppo spesso la comunicazione sia violenta, mirata allo scandalo e al sensazionalismo e non a stabilire i presupposti del dialogo…

Credo sia opportuno distinguere la comunicazione, che ha uno spettro molto ampio, dall’informazione giornalistica. Credo si soprattutto quest’ultima a puntare allo scandalo e al sensazionalismo gonfiando e alterando spesso gli elementi della notizia. È vero che colpisce il padrone che morde il cane, però, a seguire i media, oggi ci appare un mondo tristissimo, fatto solo di guerre, soprusi e scandali. Ma anche la comunicazione – soprattutto quella interpersonale – ha i suoi problemi. È certamente violenta, poiché avviene quasi esclusivamente attraverso strumenti tecnici e questo la priva di quella naturale prudenza che si ha quando ci si parla faccia a faccia. I messaggini, i “vocali”, i post inducono a una leggerezza nel linguaggio che si trasforma in superbia e arroganza: chi avvia la comunicazione parte sempre dal presupposto assoluto di avere ragione. E poi c’è un linguaggio esasperato, che ignora le sfumature delle parole, come dice il Papa è un linguaggio armato ed è figlio di un evidente calo culturale. Dobbiamo almeno dichiarare una tregua col vocabolario, meno parole armate e più parole gentili. 

 

In che modo coniugare nella comunicazione, mitezza e speranza? Scomponendo il Messaggio di Francesco qual è l’obiettivo finale?

La mitezza è scomparsa dal catalogo delle qualità umane, anzi è stata trasformata in fessaggine: chi non urla, non si arrabbia, non cerca di imporre la propria visione delle cose è considerato un debole, un fesso. La speranza è invece in crisi perché è una virtù che richiama il futuro e oggi il futuro, quando è considerato, è visto in maniera negativa, non come tempo per poter realizzare i propri progetti ma come spazio per nuove paure. Se non recuperiamo una corretta visione del futuro, non riusciremo a vivere e comunicare la speranza. L’obiettivo finale credo, quindi, sia di voler tornare a un’umanità piena e che ora sembra abbia smarrito l’impronta divina, quel soffio vitale che ha trasformato la polvere in carne vivente.

 

Nella Chiesa, anche comunicare è un servizio all’evangelizzazione. In che cosa, secondo lei bisogna migliorare sia a livello centrale che nelle singole diocesi. Qual è il modello più fecondo da costruire e da seguire?

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La Chiesa è stata la prima istituzione a occuparsi seriamente di comunicazione, tanto che il Concilio vi dedicò un fondamentale documento – l’Inter mirifica – ancora oggi valido strumento per capire e leggere la realtà. Parrocchie e Diocesi soffrono oggi di quelli che sono i mali della società e quindi superficialità, incompetenza, poco studio. A livello centrale si producono molti documenti, messaggi, esortazioni ma restano pura teoria e non raggiungono le periferie. In passato quasi tutte le parrocchie organizzavano cineforum: un modo intelligente per avvicinare al cinema ma non restarne strumentalizzati. Perché non si fa lo stesso con gli altri media? Penso che dei corsi per imparare a “leggere” un giornale, “vedere” un tg o un sito, “ascoltare” un radiogiornale, “chattare” sui social sarebbero molto utili, intanto per rafforzare le capacità critiche di ciascuno e poi per imparare a muoversi meglio fra le mille trappole dei media. Prudenti come serpenti e semplici come colombe, ammoniva già duemila anni fa Matteo.

 

Lei è un esperto di diritto all’oblio nel web. Esso è un diritto fondamentale per la tutela della dignità e della privacy delle persone, ma non può essere usato come pretesto per cancellare la storia o impedire il dibattito pubblico. Come si può snocciolare meglio questo impegno da parte dei giornalisti?

È un tema assai delicato, poiché il diritto a conoscere della comunità è in naturale conflitto con la vita privata delle persone di cui si occupa e lo è anche quando certi fatti vengono riportati a galla molto tempo dopo. Le norme deontologiche danno già ai giornalisti alcuni criteri perché il diritto d’informazione non si trasformi in arbitrio ed esposizione mediatica senza fine. Come hanno precisato anche i giudici della Cassazione in una pronuncia a Sezioni unite, l’elemento da tener presente è l’interesse pubblico alla conoscenza di un fatto risalente nel tempo, non basta la semplice curiosità di capire che fine hanno fatto Tizio o Caio. Allo stesso modo ciò che è importante sono i fatti, prima ancora dei loro protagonisti. Per pietà e per consentire il perdono – l’oblio è la sua porta d’accesso – il velo della dimenticanza può scendere sulle persone, ma certamente non sulle loro azioni se queste hanno avuto grande impatto sociale. Penso per esempio alla stagione del terrorismo, che fa parte nel bene e nel male della storia del nostro Paese. E poi va detto che la parola “ricordare” significa riportare al cuore: la necessità dell’oblio cessa se si “ricorda”, cioè se i fatti vengono raccontati con il cuore, con umanità, come quando affiora in noi un bel ricordo.

 

Il giornalismo deve rispettare il diritto all’oblio, ma anche garantire il diritto di cronaca, nel quadro di una informazione libera e responsabile. Quali i confini? E quali le prospettive per ridare speranza ad un’informazione corretta e che rispetta la dignità altrui?

Partiamo da un dato economico: l’informazione corretta, rispettosa delle persone, di qualità ha un costo altissimo poiché è servizio di grande pregio. Richiede molta formazione, tempo, disponibilità economiche per muoversi e seguire i fatti dal vivo e non per sentito dire. Oggi si investe sempre meno in questo e prevale un’informazione low cost che inevitabilmente passa al servizio di gruppi economici, di un potere o di una parte politica. La scarsa qualità e il repentino cambio tecnologico innescano un avvitamento mortale in cui calano gli introiti dei media e quindi ci sono sempre meno risorse per fare un’informazione libera e indipendente. Così abbondano i tg fotocopia e i giornali schierati, come se le notizie fossero un derby calcistico. La naturale partigianeria degli utenti appare come legittimata nel momento in cui gli organi d’informazione diventano parziali. La verità ha perso la sua oggettività per diventare soggettiva: è vero ciò che penso io e quindi seguo quei media che la pensano come me, credendo in questo di trovare una conferma alla fondatezza delle mie idee (effetto eco chamber). Al momento l’unica strada che vedo è una nuova generazione di utenti che avrà la forza di chiedere e ottenere un nuovo sistema mediatico, imprenditori più disponibili e giornalisti con la schiena più dritta. Altrimenti finiremo nella rete di un’informazione fatta con l’intelligenza artificiale, forse tecnicamente perfetta ma certamente inaffidabile.

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