«Mio padre è ancora qui, ce lo ricordiamo tutti perché ci ha fatto ridere. E far ridere è difficile, serve ad alleggerire un po’ il peso della vita». Sono passati cinquant’anni da quella serata romana, in cui, sullo schermo di un notissimo cinema del centro, veniva proiettato il primo titolo della saga, Fantozzi, diretto da Luciano Salce: «Mi sembra che il tempo sia volato – dice Elisabetta Villaggio, ospite d’onore, stasera, a Monopoli, in occasione della retrospettiva dedicata a Paolo Villaggio dal “Sudestival”- e mi fa tantissimo piacere che mio padre sia tuttora circondato da un affetto che lo tiene ancora vivo. Credo che un’attenzione del genere non se la sarebbe mai aspettata».
Che memoria ha di quella prima del 27 marzo 1975?
«Ero una ragazzina, ricordo di aver percepito benissimo l’eccitazione di mio padre e anche il terrore legato agli esiti del film. Siamo andati tutti insieme al Cinema Barberini, ci disse “entrate da soli, per conto vostro, senza dire chi siete, e cercate di capire come va”. Lui, invece, appena spente le luci, se ne andò da solo in altri due cinema, più popolari. Si è rilassato solo quando ha iniziato a sentire le prime risate».
Che poi sono continuate per molti decenni… secondo lei perché?
«Perché siamo tutti un po’ Fantozzi. Perché siamo goffi, ci capita di inciampare, di cadere, di prendere l’autobus al volo, di sbagliare funerale, di essere vessati dai superiori. Fantozzi è un puro, ha un comportamento infantile anche quando sembra che faccia cattiverie, ma conserva sempre la sua integrità».
Ha raccontato che il suo non è stato il padre ideale. Perché?
«Da piccola non ero affatto contenta di essere Elisabetta Villaggio. In famiglia siamo stati tutti travolti dal successo improvviso, a casa c’erano sempre fotografi e giornalisti, non mi piaceva, così come non mi piaceva essere diventata “la figlia di”. Ero molto timida, quando andavo alle festicciole dei bambini, non venivo presentata con il mio nome, ma sempre in quel modo, “la figlia di Villaggio”. Anche i primi passi nel mondo del lavoro sono stati difficili. Ero trattata come una raccomandata».
Quando ha superato il disagio?
«A un certo punto, verso i vent’ anni, me ne sono andata in America, ci sono rimasta per 5 anni e sono tornata a essere Elisabetta. Crescendo, si impara a farsi le spalle larghe e anche le persone che, verso di me, avevano avuto un po’ d’astio, si sono ricredute e sono venute a dirmelo».
Lei e suo padre avete mai litigato?
«Non gli ho mai perdonato di aver venduto una casa di famiglia, in montagna, a Cortina, che avevano comprato i nonni quando io ero nata. Ero molto legata a quella casa, mi riportava alla nostra infanzia e giovinezza, era la casa di famiglia per antonomasia. Per un lungo periodo, dopo la vendita, non ho più rivolto la parola a mio padre».
Poi avete fatto pace?
«Si, per fortuna non sono rancorosa, dimentico le cose facilmente. E poi era molto difficile non perdonare mio padre, era una persona stimolante, intelligente, curiosa, con lui non ci si annoiava mai, mi ha fatto scoprire i classici, quando eravamo ragazzini ci metteva in mano Kafka e Dostoevskij. Abbiamo fatto viaggi bellissimi».
Che cosa le ha insegnato suo padre?
«A ragionare sempre con la testa propria, senza preconcetti, non lamentarsi, rimboccarsi le maniche e conservare la propria onestà intellettuale».
Qual è la caratteristica di suo padre che ha invece deciso di non voler assolutamente assimilare?
«Mangiare così tanto, mio padre lo ha fatto al punto da finire per ammazzarsi da solo. Aveva il diabete, lo accompagnavo alle visite mediche e, appena ne usciva, si fiondava nelle pasticcerie. Solo che non comprava una sola “pastarella”, le comprava tutte».
Secondo lei per quale ragione?
«Prima di tutto era un goloso, gli piaceva qualunque cosa, poi, per lui, mangiare, era un po’ come prendere un ansiolitico. Se si svegliava di notte, andava in cucina e mangiava quello che trovava. Quando a Roma hanno aperto i primi ristoranti etnici, siamo stati i primi a frequentarli. Per mio padre, quando eravamo in viaggio all’estero, visitare un Museo era importante esattamente come provare il cibo locale, ma non nei grandi ristoranti, anche per strada, dove si mangiano le cose tipiche del luogo. Lo faceva anche a Roma.
Dove?
«Di venerdì, per esempio, non perdeva mai l’occasione di andare ad assaggiare cibi vicino alla Moschea. Fino a prima del Covid, venivano allestiti banchetti dove si cucinava e si mangiava lì per lì».
Il rapporto con il cibo aveva, evidentemente, a che fare con baratri di infelicità. E’ d’accordo?
«Si, mio padre ce li aveva, ma era molto timido e li nascondeva. Aveva quel pudore tipicamente ligure che lo spingeva a non rivelare i propri sentimenti. Era tormentato, si poneva tante domande, ma erano tutte cose sue, che non gli piaceva mostrare».
Tanto meno ai figli, immagino.
«Si, con noi, per quello che riguardava se stesso, è stato chiuso. Con suo nipote, cioè mio figlio, è stato molto più aperto, forse perché, quando è nato, era ormai realizzato nel lavoro, quindi più tranquillo».
Qual è il film di suo padre che le preferisce?
«A parte i primi Fantozzi, mi piaceva molto un film di Nanni Loy, degli Anni Settanta, Sistemo l’America e torno , e poi ho amato tanto Io speriamo che me la cavo. I bambini del film hanno stabilito con mio padre un rapporto molto bello, vennero a casa a Roma, a pranzo da noi, continuavano ad abbracciarlo. E comunque mio padre, con i piccoli, ha sempre avuto un legame diretto, li trattava alla pari, da adulti, senza vezzeggiarli».
Tra le tante cose che suo padre le avrà rivelato prima di andarsene, quale l’ha più colpita?
«Una volta, nei suoi ultimi mesi di vita, mi confessò: “Sai che io che, da piccolo, pensavo di essere pazzo?” Non l’aveva mai detto prima, ho riflettuto sul fatto che poi, nella sua vita, aveva avuto successo proprio facendo il pazzo, cioè recitando».
Quando ha visto suo padre veramente felice?
«Nel ’92, quando ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla Mostra di Venezia. Non stava nella pelle, era come essere riabilitato. Le critiche negative di chi lo aveva considerato un pagliaccio, un attore di serie B, lo avevano sempre ferito, anche se non lo aveva mai detto».
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