A Pechino segueno con estrema attenzione, le prime mosse del Presidente Trump. Xi Jinping, gli altri leader del Partito comunista e gli analisti incaricati di monitorare la politica estera americana, cominciano a farsi un’idea di ciò che li aspetta. Una battaglia ‘ideologica’, aspra e dai toni persino violenti. Ma questa è solo la superficie dell’iceberg. Sott’acqua c’è di peggio. Salvo altre convenienze del lunatico avversario
Le differenze di sistema ‘come clava’
I cinesi sono convinti che Trump sfrutterà le ‘differenze di sistema’ come clava, attaccando il marxismo e la mancanza di libertà nel grande Paese asiatico. Non perché sia motivato moralmente, ma soltanto perché crede che così terrà sotto pressione Xi. Sarà un espediente, per ottenere i vantaggi che più gli interessano: quelli sul piano commerciale. La Terza guerra mondiale per Trump, insomma, è cominciata e si combatte a colpi di tariffe e dazi doganali. E lui li ha già annunciati. I diritti umani sono solo un’arma in più, da utilizzare per aumentare il ‘volume di fuoco’.
‘China Analysis’ dell’Asia Society Policy Institute
Secondo Neil Thomas, ricercatore di Politica cinese al Centre for China Analysis dell’Asia Society Policy Institute, «Trump vuole creare difficoltà a Pechino come tattica negoziale, per raggiungere un accordo migliore per l’economia americana». Un osservatorio attento, come il quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, sostiene che «mentre il governo di Biden ha concentrato l’attenzione sulla comunità LGBTQ, sui diritti delle donne e sui valori politici condivisi con gli alleati, si prevede che l’Amministrazione Trump adotterà un approccio più unilaterale, per concentrarsi nuovamente sulle libertà religiose in Cina e sulla legittimità del Partito comunista al potere nel Paese». In particolare, Fei-Ling Wang, professore alla Sam Nunn School of International Affairs del Georgia Institute of Technology, ha affermato di aspettarsi che il conflitto ideologico tra Stati Uniti e Cina persisterà durante la Presidenza Trump, anche se con connotati diversi.
Ideologia anticomunista o pragmatismo?
Per il Morning Post di Hong Kong, il vero interrogativo è quello di vedere che traiettoria prenderà la politica estera americana, sballottata tra la dottrina ‘anti-Cina’ dei falchi che compongono la nuova Amministrazione e il pragmatismo imprevedibile di Trump. È proprio su questo tema che a Pechino hanno puntato i loro radar, cominciando a fare qualche calcolo. Dunque, sostiene ancora Neil Thomas, «le credenziali anticomuniste del Segretario di Stato americano Marco Rubio significano che la diplomazia quotidiana del Dipartimento, nei confronti della Cina, potrebbe diventare più avversa e meno attenta alla consultazione e al dialogo». Stiamo parlando dell’uomo formalmente incaricato di guidare le relazioni internazionali Usa, per i prossimi quattro anni. Non si tratta certo di una buona notizia per Xi Jinping, considerato anche il curriculum che può vantare sull’argomento il nuovo diplomatico americano. «Rubio, da tempo falco della Cina -scrive il Morning Post- si è sempre opposto alle politiche di Pechino e ha co-sponsorizzato diverse azioni statunitensi volte a colpire presunte violazioni dei diritti umani, guadagnandosi un posto nella lista delle sanzioni cinesi dal 2020».
Rubio anticomunista viscerale
«Durante l’udienza di conferma della sua nomina del 15 gennaio -prosegue il giornale- Rubio ha duramente criticato le ambizioni globali della Cina, accusando Pechino di violare l’autonomia di Hong Kong. Inoltre ha esposto le sue preoccupazioni sulle attività navali cinesi, definite aggressive, nel Mar Cinese Meridionale, nonché sul suo record riguardante i diritti umani nello Xinjiang. Ha sottolineato -infine- la necessità di ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina e di sostenere la partecipazione di Taiwan alle organizzazioni internazionali». Questa posizione non è la sola a creare preoccupazioni tra i leader del colosso asiatico. Anche quelle manifestate da Pete Hegseth, nominato segretario alla Difesa, e John Ratcliffe, candidato da Trump alla direzione della Cia, suscitano perplessità se non veri e propri malumori a Pechino.
Nemici dichiarati anche a Difesa e Cia
Il primo, ha detto al Congresso che il Pentagono avrebbe dovuto dare priorità assoluta al controllo del Partito Comunista cinese, considerandolo come «centro nevralgico tra le minacce straniere agli Stati Uniti». Il secondo, durante la sua audizione davanti al Senato si è impegnato a intensificare l’attività di intelligence e di spionaggio contro la Cina, definita minaccia chiave di una sfida irripetibile in una generazione».
Per fortuna di Xi c’è Donald
Paradossalmente, però, il migliore alleato di Xi Jinping potrebbe finire per essere proprio Donald Trump. Sempre secondo Neill Thomas, il nuovo Presidente vede i diritti umani come una priorità molto più bassa per la politica estera degli Stati Uniti, rispetto a molti dei suoi candidati al gabinetto. «Una situazione – aggiunge lo studioso – che probabilmente creerà tensioni politiche e frustrazioni personali all’interno della nuova Amministrazione». Ricordando tutti che mai una sola delle prime nomine nel Trump Uno, è mai arrivata alla fine del mandato.
Una visione rafforzata dall’osservatore cinese Andrew Nathan, docente di Scienze politiche alla Columbia University, citato dal Morning Post. Nathan pensa che «i diritti dei lavoratori, la libertà di parola o la repressione politica non rientreranno nella politica cinese di Trump». No lui, evidentemente, se si agiterà, lo farà solo quando si dovrà parlare di business.
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