Nel 2024, a vent’anni dalla prima edizione, Einaudi ha ripubblicato Come una rana d’inverno, il libro che riunisce le testimonianze di tre donne sopravvissute ad Auschwitz: Liliana Segre, Goti Bauer e Giuliana Tedeschi. A raccogliere le testimonianze, in lunghe e intense conversazioni avvenute fra il gennaio del 2002 e il novembre del 2003, fu Daniela Padoan, scrittrice e studiosa da sempre particolarmente attenta alla raccolta e allo studio di testimonianze di donne che hanno vissuto sulla propria pelle le grandi tragedie del Novecento: dalla Shoah alla dittatura militare argentina, fino al genocidio in Ruanda. A Daniela Padoan abbiamo rivolto alcune domande, per scoprire (o riscoprire) Come una rana d’inverno, e anche per fare il punto, a venticinque anni dalla sua istituzione, sul Giorno della Memoria e sulle complesse questioni storiche, culturali, politiche e didattiche alle quali questa ricorrenza ogni anno ci mette di fronte.
D1. La prima edizione di Come una rana d’inverno è uscita nel 2004, e uno degli obiettivi espliciti del libro era quello di indagare un aspetto a lungo trascurato nel discorso sulla Shoah e sulla memoria dei campi di sterminio, quello della specificità della condizione femminile. Le stesse protagoniste del libro, a più riprese, si lamentano di come la testimonianza femminile sia stata a lungo oscurata e negletta. Pensa che negli oltre vent’anni passati da quella prima edizione, anni in cui anche il discorso pubblico sul femminile ha assunto una nuova centralità, qualcosa sia cambiato? qual è, insomma, il bilancio che ha fatto su questo aspetto quando ha rimesso mano al libro?
R1. Da allora sono stati pubblicati molti testi di riflessione sulla specificità della deportazione e della testimonianza femminile, tuttavia credo non sia stato ancora messo abbastanza a fuoco il carattere costitutivo dello sterminio delle donne come generatrici di quella che l’ideologia nazifascista considerava la “razza indegna di riprodursi”. La stessa struttura del campo di Auschwitz Birkenau era sessuata, non solo perché fu il luogo degli esperimenti concepiti per sterilizzare in massa i popoli slavi e indurre parti plurigemellari nelle donne di “razza ariana”, ma perché le camere a gas e i forni crematori erano a Birkenau, davanti alle baracche del campo femminile, costituendo parte integrante dell’esperienza di prigionia delle donne – un fatto riconosciuto, con la consueta chiarezza di analisi, già da Primo Levi. Era lì che venivano indirizzate le file di prigionieri destinati all’eliminazione – vecchi, donne in avanzato stato di gravidanza, bambini – quasi a rendere evidente come il concetto stesso di genocidio affondi in politiche volte a spezzare la generatività, la continuità delle generazioni.
D2. Il libro raccoglie le testimonianze di tre donne, Liliana Segre, Goti Bauer, Giuliana Tedeschi, di età diverse ma con esperienze in qualche modo parallele (“qualcosa che è diverso soltanto nei particolari ma che è simile nella sostanza”, dice proprio Goti Bauer): il modo in cui si sono trovate schiacciate dentro i meccanismi dello sterminio, così come i modi in cui hanno affrontato il dopo, non potevano che essere tragicamente simili. Eppure la personalità di ciascuna delle tre, nel libro, emerge molto forte. C’è qualche aspetto, del modo peculiare che hanno Liliana, Goti e Giuliana di guardare alla loro esperienza, che ritiene sia importante mettere in evidenza?
R2. Erano anzitutto tre donne di età diverse, Liliana Segre era una ragazzina di tredici anni, Goti Bauer era una giovane donna ventenne, Giuliana Tedeschi aveva trent’anni ed era madre di due bambine. E naturalmente ciascuna di loro aveva una storia familiare e un carattere formato dall’ambiente di provenienza. Liliana aveva perso la mamma quando era molto piccola e la separazione dal padre la aveva precipitata in una solitudine abissale, facendola sentire una “monade” in un luogo di violenza incomprensibile. Goti proveniva da una famiglia mitteleuropea, parlava diverse lingue e nel campo aveva incontrato compagne ungheresi e slovacche con le quali era riuscita a costruire, nei modi possibili in un universo concepito per l’eliminazione, una forma di relazione che risiedeva nell’aggrapparsi al ricordo del mondo perduto – ricette di piatti di casa, letture, poesie imparate a memoria – nella speranza mai abbandonata di sopravvivere per ricongiungersi al fratello. Giuliana resisteva per poter ritrovare le figlie, lasciate nascoste a Torino: questo era il suo pensiero ricorrente, assieme a un’acuta consapevolezza dell’importanza della relazione con le compagne. “Nel Lager eravamo maglie”, diceva spesso, “sapevamo che se una si fosse perduta, ci sarebbero perdute tutte”.
D3. Nella postfazione al volume, le pagine forse più intense e personali sono quelle in cui lei riflette sul rapporto che si crea fra il testimone dell’indicibile e chi raccoglie la testimonianza. Fra i due rimarrà sempre una distanza, dice, l’irrimediabile frattura fra chi l’esperienza di “ciò che non avrebbe mai dovuto essere” l’ha vissuta sulla propria pelle, e chi no. Eppure, senza la disponibilità a porsi sul confine di quella frattura, sia da parte di chi racconta, sia di chi, estraneo all’esperienza raccontata, vuole ascoltare e provare a capire, non può esserci vera testimonianza. Oggi, da un lato, stanno venendo meno le voci vive dei testimoni (ci resteranno presto solo gli scritti, le registrazioni audiovisive: un’ulteriore distanza da superare); dall’altro la disponibilità all’ascolto di quelle voci sembra sempre più rara, superficiale, distratta. Come porsi di fronte a questa realtà? Che fare?
R3. Penso che la testimonianza sia anzitutto una scelta relazionale, basata sull’incontro di due volontà che instaurano quello che si può chiamare un patto di ascolto. Me lo fece capire con straordinaria chiarezza Giuliana Tedeschi che, dopo aver scritto un libro di memorie perduto nel dopoguerra, smise di parlare; tornò a farlo solo quando una sua studentessa la attese all’uscita da scuola e la pregò di raccontare. “Lei voleva ascoltare”, mi disse, “e io mi fidai del suo ascolto”. Ma la severità di Giuliana, negli incontri che furono necessari alla stesura del libro, mi fu subito chiara: non si può riaprire la ferita immensa delle immagini conservate nella mente senza saggiare a ogni passo la tensione dell’altro a comprendere, la solidità di chi, accogliendo il racconto, si impegna a non situarlo su “un altro pianeta” ma qui, tra gli uomini; non qualcosa che ci commuove, su cui fondare una sorta di metafisica, ma una consapevolezza che ci interroga politicamente, che ci chiama a una responsabilità. Questo è vero per la testimonianza diretta, ma credo lo sia anche per quella mediata da testi o supporti audiovisivi.
D4. Nell’esperienza di molti la conoscenza e la comprensione della Shoah è legata all’opera di Primo Levi, che nel libro torna più volte come “il comune interlocutore maschile” delle tre protagoniste. In Levi, deliberatamente, prevale un approccio razionale, argomentativo, “spassionato”: crede che questo approccio oggi sia ancora quello giusto per avvicinare i giovani alla meditazione sulla Shoah, o serve anche altro?
R4. Primo Levi si ritrovava nell’immagine del Vecchio marinaio di Coleridge che irrompeva nel banchetto di nozze raccontando la propria disgrazia a chi voleva invece far festa. Raccontava ai vicini nei suoi viaggi in treno, mentre andava al lavoro, e ovunque gli fosse possibile. La sua era la posizione del testimone di fronte a un giudice astratto, a un tribunale immaginario. “I giudici siete voi”, diceva, rivolgendosi ai suoi lettori. È una posizione straordinaria, che lo ha reso il “testimone per eccellenza”. Per le donne non è stato così. Non lo è stato sicuramente per le tre testimoni che parlano in Come una rana d’inverno. Tutte hanno cominciato piuttosto tardi, dopo essere diventate madri e nonne, in una dimensione relazionale. Credo che entrambi gli approcci siano tuttora essenziali per avvicinare i giovani: voci cristalline, che dicono che “questo è stato”. Mentre sono fuorvianti, a mio avviso, le novellizzazioni, le fiction che prendono lo scandalo insanabile della Shoah come materiale di finzione. È quello che il premio Nobel per la letteratura Imre Kertész, sopravvissuto di Auschwitz, chiamò il kitsch dell’Olocausto: un genere letterario, filmico, turistico, un sentimentalismo, una mercificazione, un canone.
D5. Il 27 gennaio 2025 si celebra il Giorno della Memoria, in Italia, per il venticinquesimo anno. Lo facciamo, per il secondo anno, in una Europa di nuovo in guerra. Lo facciamo mentre assistiamo, a Gaza, alla contraddizione scellerata di un governo israeliano che massacra e toglie dignità ad un intero popolo. Lo facciamo in un mondo in cui la fiducia nella democrazia è in crisi, in cui l’antisemitismo, il neofascismo e il neonazismo sembrano sempre più forti e non si vergognano di uscire allo scoperto. Sono i segni del fallimento del progetto politico-culturale del Giorno della Memoria o del fatto che bisognerebbe su di esso investire ancora maggiori energie?
R5. Penso che il Giorno della Memoria debba essere protetto tanto dalla retorica quanto dalla dimenticanza, onorandolo come irrinunciabile possibilità di riflessione sul baratro morale e politico in cui la civiltà europea è precipitata, mostrando il suo nascosto cuore di tenebra; che è essenzialmente la disposizione, viva ancora oggi, a distinguere gli esseri umani in categorie del disprezzo. Credo che la memoria della Shoah non possa essere una ricorrenza identitaria né un salvacondotto, ma il punto cardinale della nostra educazione politica.
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