«Non è stato un processo facile, ma era necessario. Un passo ulteriore all’interno di un cammino intrapreso 15 anni fa, a partire dal 2010, quando nella nostra diocesi è stato eretto il primo sportello diocesano che si occupava degli abusi». Monsignor Ivo Muser, vescovo di Bolzano Bressanone parla del report Il Coraggio di guardare, che, affidato allo studio legale Westpfahl-Spilker-Wastl di Monaco di Baviera, ha denunciato 67 casi di abusi, 59 nei confronti di minori, avvenuti in Alto Adige tra il 1964 e il 2023, da parte di 29 preti. «Abbiamo chiesto di indagare a partire dalla data di erezione della diocesi, appunto il 1964» spiega al telefono.
Perché avete richiesto questo report?
«Perché abbiamo sentito questa ferita all’interno della Chiesa e all’interno delle famiglie. Ne abbiamo discusso molto, anche nei consigli diocesani, valutando pro e contro e poi abbiamo pensato di rielaborare tutti i casi che erano stati in qualche modo segnalati a partire dal 1964, da quando siamo diocesi di Bolzano Bressanone, dopo il riassetto delle due parti attuali. Abbiamo avviato questo processo, un processo doloroso, per niente facile, però speriamo sia un contributo anche di speranza. La cosa più importante per me è un cambiamento di mentalità, di cultura che deve coinvolgere tutta la diocesi, tutti noi, perché è una ferita atroce all’interno della Chiesa , all’interno delle famiglie e della nostra società».
Lo avete intitolato il Coraggio di guardare, ma c’è anche il coraggio di parlare.
«Tutto comincia con il coraggio di parlare. Quello che mi ha aiutato di più a capire è il rapporto diretto, i racconti diretti, immediati con le vittime. Questo fa cambiare prospettiva. Quando viene a contatto concreto e immediato con queste storie sofferte, umilianti, questo cambia la mente e anche il cuore. Questo è il cambiamento che deve avvenire: vedere questa ferita atroce dall’ottica delle vittime e non soltanto da quella dell’istituzione o di chi ha abusato. Le vittime hanno bisogno di raccontare, di parlare. Questo è anche commovente».
Le sono stati consegnati anche i nomi degli abusanti. Cosa farete?
«Gran parte di loro sono già morti, alcuni sono molto anziani, altri hanno ancora un incarico limitato all’interno della pastorale. È importante anche la prevenzione. Abbiamo già fatto dei provvedimenti, ma forse dobbiamo rivedere anche come vengono vissuti e accettati questi provvedimenti. Ma nella gran parte dei casi gli abusanti sono morti o molto anziani».
Per i casi più recenti prenderete provvedimenti?
«Ma certo. È importante. Molti provvedimenti, come dicevo, li abbiamo già presi. Quando c’è un sospetto ci muoviamo secondo le regole del diritto canonico, segnaliamo alla Congregazione della fede e così via. E tutte queste cose sono già avvenute E poi ogni caso è un caso a sé, non tutti sono sulla stessa scia».
In conferenza stampa ha parlato anche della cultura dell’errore. Cosa significa?
«Ammettere gli errori. Proprio per questo mi sono assunto la responsabilità, personale e istituzionale, perché tutto questo è avvenuto all’interno della nostra Chiesa diocesana, è una cosa che contraddice il Vangelo, e per questo dobbiamo assumerci la responsabilità e io devo farlo per primo perché sono il vescovo di questa comunità ».
Anche la Cei ha avviato un percorso di trasparenza. Il vostro caso può spronare a fare di più?
«Non voglio che questa cosa sia pensata in opposizione agli altri. Non siamo la diocesi più importante d’Italia, non siamo l’ombelico. del mondo. Mi auguro che il nostro sia un passo all’interno di un cammino più ampio che deve coinvolgere tutti noi e non soltanto la Chiesa italiana, ma la Chiesa universale. Papa Francesco l’ha detto tante volte e già prima di lui lo aveva detto papa Benedetto: questo deve essere un cammino universale perché, purtroppo, ci siamo accorti che è universale la ferita. Lo vedo come un momento all’interno di un cammino molto molto più ampio: basta, deve cambiare una certa mentalità del nascondere, del sopprimere, dell’offuscare. Nessuno di noi, nessuno, può trattare questa ferita come se nulla fosse».
Come cambierete le procedure?
«È importante migliorarle, che ci sia un filo conduttore all’interno degli organismi: sportello diocesano, una equipe che interviene, la prevenzione. E poi i sacerdoti che prestano ancora un servizio devono essere ancora più sorvegliati, e così via. E mi auguro che tutto questo ci aiuti a parlare di queste cose. Non deve essere un tabù, perché se viene trattato come un tabù allora è l’inizio della fine».
In questi giorni alcune vittime l’hanno chiamata?
«Si, mi hanno chiamato e mi hanno tutti ringraziato. Ho ricevuto chiamate, messaggi. Ed erano tutti contenti non perché in questo modo sparisce la ferita ma perché si sentono presi sul serio, si sentono ascoltati».
I prossimi passi?
«Sarà importante discutere su questa perizia in tutte le commissioni, soprattutto con i confratelli, con i sacerdoti, nel consiglio presbiterale, nel consiglio pastorale diocesano. Questo per me è molto importante perché deve coinvolgere tutti noi. E poi mi auguro che tutto questo possa essere anche uno stimolo per la società perché purtroppo questo non è soltanto un problema all’interno delle strutture della Chiesa, ma è una ferita atroce anche all’interno delle nostre famiglie e della nostra società».
La Chiesa, più trasparente, potrebbe diventare un punto di riferimento anche per la società?
«Me lo auguro. Questo potrebbe essere anche uno stimolo evangelico, uno stimolo di speranza. La via è ancora lunga, ma io vedo in tutto questo, nonostante tutte le ferite, la tristezza e difficoltà, anche un motivo di speranza che ha a che fare con l’Anno santo appena incominciato».
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