Ultimo aggiornamento: 24/01/2025 15:02:10
Dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca i giornalisti arabi si domandano come potrebbe cambiare la politica estera americana in Medio Oriente. «È tornato. Allacciate le cinture. Non fate finta di essere lontani o che la cosa non vi riguardi», scrive Ghassan Charbel, direttore editoriale di al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo di proprietà saudita. Quando gli americani si recano alle urne «scelgono il loro presidente e lo incoronano generale del “villaggio globale”». Non c’è bisogno di molte prove al riguardo, basta guardare agli sviluppi in Medio Oriente nell’ultimo mese, prosegue il direttore: «La paura dei venti dell’“inferno” ha accelerato la ratifica dell’accordo di Gaza. L’accordo per il cessate il fuoco nel Libano meridionale è nato nell’incubatore americano. Il comitato che ne controlla l’attuazione è guidato da un generale americano». L’articolo prosegue con una lunga serie di elogi dell’uomo forte di Washington, «grande giocatore d’azzardo che non accetta di perdere» e che riserverà grandi sorprese. «Eleggendolo, l’America ha lanciato un enorme sasso nel lago del mondo. Allacciate le cinture», conclude l’articolo riprendendo l’incipit.
Sulla stessa testata il ricercatore saudita ‘Abdullah Alrebh scrive che la variabile più importante nella politica estera mediorientale è la posizione che assumerà la nuova amministrazione nei confronti dell’Iran e di Israele. Con la caduta di Assad e l’indebolimento del potere di Hezbollah, «gli artigli iraniani sono stati recisi di netto» e questo pone la nuova amministrazione statunitense in una posizione di forza. «L’Iran del 2025 non è l’Iran del 2017, commenta il giornalista, e Trump oggi è più influente e popolare nel suo Paese rispetto al primo mandato». I punti cardine dell’agenda di Trump rispetto all’Iran sono il dossier nucleare, il sistema missilistico e l’influenza di Teheran in Iraq mentre, per quanto riguarda Israele, Trump «aspira a essere l’artefice dell’accordo [di normalizzazione] tra quest’ultimo e l’Arabia Saudita», Paese la cui posizione sul conflitto israelo-palestinese non è mai cambiata dal 1981 a oggi e che si riassume essenzialmente nella «soluzione dei due Stati».
Proprio la politica americana nei confronti dell’Iran è al centro dell’articolo di Hani Salem Mashur, pubblicato su al-Arab. «L’attuale momento iraniano rappresenta un’opportunità per ridisegnare la scena regionale. Ma il successo richiede un approccio globale, che combini le sanzioni economiche, la minaccia militare e il sostegno interno all’opposizione iraniana», commenta il giornalista yemenita. La politica della «massima pressione» esercitata da Trump durante il suo primo mandato, iniziata con il ritiro dall’accordo nucleare del 2015, ha finito per provocare il risultato opposto a quello auspicato. Le sanzioni hanno indebolito l’economia iraniana e aumentato il suo isolamento internazionale, ma Teheran è comunque riuscita a espandere la sua influenza attraverso i suoi alleati non statali nella regione. Questa volta Trump non deve rifare lo stesso errore, ma essere capace di bilanciare le pressioni economiche e militari con la diplomazia.
Su al-Jazeera Al-Khair Omar Ahmad Sulayman esclude la possibilità di scontri diretti tra l’America e l’Iran. «La determinante più importante della politica estera americana in Medio Oriente è il fattore economico», scrive il giornalista. Trump cercherà di favorire la normalizzazione tra Israele e tutti i Paesi della regione, e «il confronto tra i due Paesi non andrà oltre un quadro tattico limitato». Gli Stati Uniti non si avventureranno in uno scontro su larga scala con Teheran, se non altro perché questo potrebbe costituire una «minaccia ai pilastri del progetto economico volto a integrare Israele nell’equazione economica e politica all’interno del progetto del Grande Medio Oriente».
«Sei venuto a incendiare la casa?», domanda Wahid ‘Abd al-Majid al nuovo presidente americano in un articolo pubblicato sul giornale egiziano al-Ahram. Come spiega lo stesso giornalista, la domanda è una citazione tratta da “Leyla e Majnun”, un grande classico della letteratura persiana, scritto nel XII secolo dal poeta persiano Nezami. «La temperatura politica mondiale si sta avvicinando pericolosamente all’ebollizione», prosegue l’editoriale. Trump «spegnerà gli incendi o li alimenterà?» Anche se è difficile prevedere il comportamento del nuovo inquilino della Casa Bianca, è possibile che egli ritenga di «dover abbassare la temperatura e ridurre le fiamme del fuoco che arde nella “casa mondiale”, prima che gli Stati Uniti brucino insieme agli altri».
“La politica di Trump: inferno o paradiso?” titola il quotidiano panarabo al-Quds al-‘Arabi. La risposta dipende da come Trump si porrà rispetto a Israele e l’Iran, scrive il giornalista palestinese Ahmed Owidat. Ripeterà gli errori del suo predecessore Biden «facendo crescere le tensioni e i conflitti, aggravando la situazione e schierandosi con l’aggressore?». «Chi vuole porre fine alle guerre nel mondo, risanare l’economia del proprio Paese e metterlo al primo posto deve abbandonare l’approccio punitivo della forza deterrente che ha prevalso nel primo mandato», spiega Owidat. Trump deve «abbandonare il tono colonialista e imperialista che ha caratterizzato le sue posizioni prima e dopo il suo insediamento, adottare una politica globale equilibrata, fondata sul rispetto della sovranità dei Paesi e dei popoli e sulla salvaguardia dei loro interessi».
Contrariamente alle altre testate, il quotidiano panarabo di proprietà qatariota al-Arabi al-Jadid ha commentato molto poco le vicende politiche americane. Nei pochi articoli dedicati al nuovo inquilino della Casa Bianca prevalgono toni pessimisti e disfattisti. «Il suo secondo mandato sarà sicuramente turbolento e porterà grandi cambiamenti in politica estera», scrive il giornalista libanese Yaqzan al-Taqi. L’alleanza di Trump con Benyamin Netanyahu potrebbe non giovare al Primo ministro israeliano, il quale potrebbe trovare il nuovo presidente meno disposta a sostenere eventuali nuovi attacchi. Da parte sua, prosegue l’editoriale, la nuova amministrazione statunitense potrebbe non comprendere la portata delle trasformazioni in atto in Medio Oriente e che lo strumento della normalizzazione arabo-israeliana e della massima pressione contro l’Iran potrebbero rivelarsi controproducenti, aumentando i rischi e i conflitti anziché risolverli.
Se Gaza diventa un Lego
Sui media arabi continuano le considerazioni sul futuro della tregua a Gaza. C’è chi è pessimista e teme che il conflitto possa ricominciare da un momento all’altro, e chi pensa che la guerra sia stata una delle tante battaglie che i palestinesi hanno dovuto combattere in vista del trionfo finale della loro causa.
È giunto il momento di «passare dall’ideologia alla politica», scrive la giornalista libanese Iman Shamas sulla piattaforma libanese online Asasmedia. Al di là dei proclami, sull’accordo pesano delle grandi incognite. Non è detto che il conflitto sia davvero giunto al termine, perché Hamas potrebbe approfittare del periodo di tregua per ricostruire il suo esercito: «Questo accordo mostrerà al Primo ministro Benyamin Netanyahu che l’idea di una vittoria totale su Hamas è pura illusione». Da parte sua Netanyahu, desideroso di avere il sostegno di Trump «potrebbe aver deciso di concedergli una vittoria prima del suo insediamento. Forse ha calcolato che ignorare Trump sarebbe stato più difficile e più costoso dell’abitudine di ignorare l’amministrazione Biden». La seconda fase dei negoziati, che prevede il ritorno degli ostaggi rimasti e il ritiro di Israele da Gaza, potrebbe essere più complicata, prosegue l’articolo. «Gli obbiettivi finali di Israele e Hamas potrebbero divergere: Hamas non libererà gli ostaggi rimasti essendo l’unica carta che gli resta, a meno che Israele non si impegni davvero a porre fine alla guerra e a ritirarsi da Gaza». Da parte sua Netanyahu, che teme Hamas, non si ritirerà da Gaza a meno che non si crei una forza di sicurezza internazionale o regionale con una comprovata capacità di impedire il riarmo di Hamas. Se le due parti non troveranno un accordo, è possibile che Trump decida di ritirarsi da esso incolpando Israele e Hamas del fallimento.
“Ciò che sta accadendo a Gaza è una soluzione permanente o un Lego?”, titola al-‘Arab. I Lego sono un gioco divertente che alimenta la fantasia dei bambini, ma diventa problematico se invece è un intero Paese a essere trasformato in un Lego da distruggere e poi ricostruire, commenta il giornalista siriano Ali Qasim. Il rischio è che la Striscia di Gaza venga ricostruita in vista di un nuovo capitolo di distruzione. La tregua «è un campo minato» e non è affatto scontato che si arrivi alla fine della seconda e della terza fase previste dall’accordo. Netanyahu è riluttante a mettere fine alla guerra perché vuole «spalancare le porte dell’inferno per sbarazzarsi di Hamas definitivamente». Hamas, da parte sua, non è disposto a rinunciare al controllo della Striscia di Gaza e continua a operare contro il parere dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania, che aveva chiesto al movimento di ritirarsi (anche temporaneamente) dalla scena, per non fornire a Israele il pretesto per rimanere altro tempo nella Striscia.
Su al-‘Arabi al-Jadid il giornalista marocchino Aziz Anouzla si inserisce nel dibattito su quale parte risulti vincitrice alla luce della tregua. Quale grande sostenitore della causa palestinese, Anouzla sostiene che non sia importante vincere la singola battaglia, ma la guerra (che finirà solo quando i palestinesi si vedranno riconosciuti i loro diritti): «La situazione non si misura calcolando perdite e guadagni, perché la guerra che i palestinesi combattono da quando la loro terra è stata occupata è innanzitutto una guerra esistenziale, per essere o non essere». Da parte sua Israele combatte per vedersi riconosciuto il diritto di esistere e imporre la propria «discutibile legittimità». È uno scontro tra due volontà: «quella dell’occupante di imporre la propria presenza, il proprio dominio e la propria supremazia; e quella del popolo palestinese di vivere degnamente e liberamente sulla propria terra e determinare il proprio destino». La storia, prosegue il giornalista, finisce sempre per dare ragione a chi è vittima di soprusi, come è accaduto in Vietnam e in Algeria. Nonostante il prezzo pagato a Gaza sia stato molto alto in termini di vittime e distruzione, «la Resistenza non si è arresa», mentre sul fronte opposto Israele è diviso al suo interno, il suo popolo vive nella paura e i leader politici e militari sono accusati di crimini di guerra e contro l’umanità. Dopo la guerra Israele «è meno sicuro di quanto lo fosse prima del 7 ottobre» e si è fatto nemici in tutta la regione per le generazioni a venire, conclude Anouzla.
Al-Quds al-‘Arabi denuncia invece l’escalation di violenza in Cisgiordania e il rischio di un nuovo «genocidio». Nonostante la Cisgiordania non abbia commesso un 7 ottobre contro Israele e non sia controllata da Hamas, i funzionari israeliani «hanno iniziato a salire i gradini della “scala dell’annientamento”». Dopo l’annuncio del cessate il fuoco a Gaza, il numero di posti di blocco in Cisgiordania è salito a 898 e gruppi di «coloni estremisti» hanno iniziato ad attaccare città e villaggi palestinesi in concomitanza con l’inizio dell’operazione militare “Muro di ferro”. Questa escalation, denuncia l’editoriale, è finalizzata «all’annessione della Cisgiordania e di Gaza, e all’eliminazione del progetto politico palestinese».
Anche al-Jazeera teme per le sorti della Cisgiordania. Il giornalista palestinese ‘Abdallah Marouf invita i suoi abitanti ad agire subito, prima che «l’occupante» possa annetterla per «compensare il suo clamoroso fallimento a Gaza e ripristinare la reputazione del suo esercito, che è stata compromessa dalla leggendaria resilienza del popolo di Gaza».
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