Medici di famiglia nelle Case di Comunità: si lavora alla riforma ma è già scontro con la categoria

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Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) italiano sta affrontando una crisi senza precedenti. La carenza di medici di medicina generale, l’invecchiamento della categoria e la difficoltà nel trovare nuovi professionisti hanno portato il sistema territoriale a un punto di non ritorno. Negli ultimi dieci anni, il numero di medici di famiglia è sceso drasticamente: da 45.382 nel 2013 a 35.398 nel 2024. Una riduzione che, unita all’invecchiamento della categoria, con il 75% degli attuali professionisti che nel 2021 contavano oltre 27 anni di servizio, ha messo in discussione la sostenibilità del sistema sanitario territoriale.

Per affrontare l’emergenza sanitaria, il Ministero della Salute e le Regioni intendono rivoluzionare il ruolo dei medici di medicina generale, trasformandoli in dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale e assegnandoli alle Case di Comunità. Secondo il piano ministeriale, i nuovi medici di famiglia lavorerebbero esclusivamente in queste strutture, garantendo una presenza stabile. Mentre i medici già in servizio, invece, manterrebbero il rapporto di convenzione ma sarebbero obbligati a prestare almeno 14-16 ore settimanali presso le Case di Comunità. Queste strutture finanziate con 2 miliardi di euro attraverso il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), dovrebbero rappresentare il nuovo modello di assistenza territoriale, offrendo cure più vicine e accessibili ai cittadini. Ma, la loro attuazione procede a rilento: delle 1.420 Case di Comunità previste entro il 2026, ad oggi solo 413 sono operative. Di queste, molte funzionano a orario ridotto o con servizi limitati per la grave carenza di personale. In Lombardia, ad esempio, su 125 Case di Comunità attive, ben 85 sono prive di medici di famiglia e faticano a garantire i servizi di base.

Le case di comunità sono strutture concepite per rafforzare la medicina territoriale e ridurre l’afflusso improprio ai pronto soccorso, dove, secondo i dati Agenas 2023, il 68% degli accessi riguarda codici bianchi e verdi. Circa 4 milioni di questi accessi impropri riguardano pazienti senza traumi, giunti autonomamente o inviati dai medici di famiglia, spesso durante orari diurni, con dimissioni al domicilio o in strutture ambulatoriali.

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Ma i medici di famiglia non ci stanno e sono già sul piede di guerra.

«La proposta di trasformare i medici di medicina generale in dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale è una grande sciocchezza e comporterebbe più danni che benefici»-commenta Antonio Magi presidente dell’Ordine dei medici del Lazio.

Ci spiega i motivi?

«La maggior parte dei medici di medicina generale ha oggi un’età media superiore ai 60 anni. Se venisse introdotto un regolamento per inquadrarli come dipendenti, molti di loro si dimetterebbero immediatamente e andrebbero in pensione. Questo accadrebbe perché non avrebbero alcun interesse a rimanere, soprattutto di fronte a un cambiamento così radicale. Inoltre, i giovani medici sono già pochi e spesso scelgono altre specializzazioni o professioni piuttosto che partecipare ai concorsi ospedalieri. Figuriamoci quanto potrebbero essere attratti dalla medicina generale sotto forma di lavoro dipendente».

Le case di comunità potrebbe fare da filtro per evitare il congestionamento dei pronto soccorso?

«In molte aree d’Italia è già difficile trovare un medico di medicina generale. Con questa riforma, il numero di medici disponibili si dimezzerebbe, aggravando ulteriormente la situazione. Se il sistema territoriale perde efficienza, i cittadini, non trovando un medico disponibile, si riverserebbero nei pronto soccorso. Questo comporterebbe un sovraccarico insostenibile per i pronto soccorso, che sono già al limite. Un aumento significativo degli accessi porterebbe inevitabilmente alla paralisi del sistema».

I costi?

«I medici di medicina generale, essendo oggi in regime convenzionato, non godono di ferie pagate, tredicesima, malattia o altri benefit garantiti ai dipendenti pubblici. Questi costi, oggi a carico dei medici stessi, ricadrebbero sul SSN, aumentando enormemente la spesa sanitaria».

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Era già previsto che i medici di medicina generale potessero lavorare nelle case di comunità?

«Nel contratto collettivo nazionale (CCN) dei medici di medicina generale è già prevista la possibilità di partecipare per un certo numero di ore alle attività delle Case della Comunità, senza dover diventare dipendenti. Tuttavia, questa norma non è stata ancora applicata da molte Regioni. Dovremmo chiederci perché le Regioni non stiano rispettando ciò che è già previsto dalla legge invece di introdurre cambiamenti che creano più problemi di quelli che risolvono. Se il medico di medicina generale diventasse dipendente e lavorasse esclusivamente all’interno delle Case della Comunità, si creerebbero ulteriori liste d’attesa. Oggi i pazienti possono rivolgersi al proprio medico con un sistema di prenotazione diretto e rapido. Trasferendo il medico in un sistema centralizzato, si rischia di introdurre ritardi e burocrazia anche per visite di routine, ricette o altre esigenze quotidiane».

Cosa pensa si dovrebbe fare?

«Il sistema attuale dovrebbe essere riformato mantenendo il regime convenzionato e applicando meglio le norme già previste nel contratto collettivo nazionale. Questo permetterebbe di migliorare il sistema senza stravolgerlo, evitando così il collasso del Servizio Sanitario Nazionale».

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