Il trauma nelle immagini e un archivio da ricostruire

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«Non voglio mostrare il nemico, che infatti non appare mai nel film, mi interessa invece il risultato della sua azione. Possiamo sentire che questa guerra è ovunque, influenza la società ucraina, la trasforma. A partire da qui ho cercato di capire come le persone trovano volontà e dignità per proteggersi e resistere fino all’ultimo istante della loro vita – una scelta questa che produce una forte emozione, e restituisce l’immagine di una nazione che si sta formando in questo conflitto. Purtroppo è sempre successo nella storia dell’umanità, le persone si sono unite durante le guerre, di fronte a un’aggressione, contro qualche nemico; è un peccato, preferirei un modo migliore di costruire una nazione». Così Sergei Loznitsa racconta The Invasion, il suo nuovo film, girato nell’Ucraina in guerra, con una piccola troupe, per testimoniarne le conseguenze nel quotidiano. La coda per l’acqua, un soldato vestito da Babbo Natale che fa sorridere i bambini, una donna che raccoglie i mattoni della propria casa distrutta, la gente davanti alla mensa popolare che aspetta un piatto di minestra.

Una scena da «Germania anno zero» (1948) di Roberto Rossellini

FINO ALLA FOLLA che butta via i libri russi perché, come ha ripetuto ancora il regista, «in guerra le persone sono colpite nell’animo, nella psiche. Per me è un grande dolore vedere scene come quella…». Oggi la necessità da cui è nato il film gli appare ancora più attuale, all’indomani dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca e in un’incertezza del futuro che cresce, come spiega nell’incontro che lo vede protagonista al Trieste Film Festival, dove The Invasion è stato presentato in anteprima italiana – e al regista nato in Bielorussia e di origine ucraina, che vive a Berlino, è stato consegnato l’Eastern Prize, un premio che omaggia le personalità capaci di costruire un rapporto fra Est e Ovest.

Ma questa incertezza è un sentimento comune in molte opere viste questi giorni, forse anche per la natura stessa di un festival che vive sui confini geografici della storia e del presente.
La guerra, si diceva, che può essere memoria ancora viva, e non solo celebrazione come ci ha mostrato il bel focus, curato da Francesco Pitassio, 1945: La guerra è finita? Traumi, rovine, ricostruzioni nel quale gli ottant’anni di un anniversario, la fine del secondo conflitto mondiale dialogano con la sua narrazione nel tempo, fra le corrispondenze col nostro mondo e immagini meno codificate. Con magnifici film rari – il Boris Barnet cupissimo girato a Yerevan, di Buia è la notte (1944) – e ri-visioni di opere fondative, nelle quali si rivela «una coscienza del cinema e delle sue possibilità nel restituire il trauma del conflitto e le aspettative del futuro». Sono le macerie di un mondo e i bordi del vuoto di Rossellini in Germania anno zero (1948) presentato da Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, narratori archivisti degli immaginari dell’umano nelle sue diverse relazioni come ci ha mostrato il loro Bestiari erbari lapidari (2024), ma anche di quel rapporto fra cinema e guerra che è al centro di Guerra e pace (2020) – lo vedremo il prossimo 25 gennaio a Fuori orario nel corso di una programmazione a loro dedicata che comprende anche la prima tv di Un documento, presentato in concorso alla scorsa edizione di Filmmaker, in cui si confrontano con la memoria di altre guerre attraverso la cura e l’ascolto. La terapia di un migrante all’ospedale milanese Niguarda nel reparto di Etnopsichiatria, la cui voce fuori campo ci dice i traumi subiti, le violenze commesse da quei carnefici come Almasri, liberato nonostante il mandato di cattura internazionale dal governo italiano e riportato in Libia.

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Passato, presente. Negli archivi si muove anche Tomasz Wolski, polacco, classe 1977, che continua un lavoro di ricognizione dentro la storia polacca recente – iniziato con An Ordinary Country (2020) a cui ha fatto seguito 1970 (2021). In A Year in the Life of a Country si concentra sugli anni Ottanta della sua infanzia, quel 1981 nel quale l’allora presidente, il generale Jaruzelski dichiarò la legge marziale contro le proteste e gli scioperi esplosi ovunque e guidati da Solidarnosc, il movimento che nell’88 rovescerà il regime. Il 13 dicembre i carri armati invadono le strade, i militari controllano ogni movimento dei cittadini, viene dichiarato il coprifuoco, gli oppositori, specie i leader di Solidarnosc, primo tra tutti Lech Wałesa vengono arrestati, chi non obbedisce agli ordini governativi perde il lavoro e rischia il carcere.

È sempre successo, le persone si uniscono di fronte a un’aggressione. Peccato, preferirei un modo migliore di costruire una nazioneSergei Loznitsa

IL PAESE è isolato, treni e voli cancellati, giornalisti, docenti, studenti vengono colpiti da una feroce censura. La propaganda diffonde false notizie sull’opposizione, la chiamano «guerra fratricida» e incolpano Solidarnosc della fame, dei razionamenti, delle code infinite per tutto, dal pane alla carta igienica. In molti si convincono che il governo ha ragione, che la legge marziale aiuta (durerà sino al 1983) ma la realtà quotidiana dimostra la menzogna mentre Jaruzelski coi suoi occhiali scuri lancia proclami sulla tv controllata dallo stato.
«La vita di un comune cittadino sorvegliato dai servizi segreti mi è sembrata molto più interessante. Il fatto che Lech Wałesa sia seguito e registrato in qualche modo sembra naturale. In quanto nemico del sistema, doveva essere sorvegliato, ma dal momento che le conversazioni del tutto banali e irrilevanti dei suoi figli erano state registrate insieme a lui, l’ho trovato affascinante, assurdo e terrificante allo stesso tempo» dice Wolski, che infatti sceglie quegli archivi di un quotidiano «ordinario» nella sua assurdità, dichiara nei suoi riferimenti il lavoro di Loznitsa. In realtà il modo di utilizzare gli archivi è assai diverso. Wolski è quasi spudorato nella sua «manipolazione» che costruisce un racconto degli eventi e insieme il suo contrario – fino a interviste impossibili come quella del reporter inglese allo stesso Jaruzelski – quasi a esplicitare la permeabilità della propria materia. Il montaggio è un’arma per smascherarne l’origine ma anche, o soprattutto, con cui costruire una molteplicità di punti di vista, interrogando ciò che le stesse immagini «testimoniano» nel tempo e forzandone i limiti sempre senza una unica certezza. È senza dubbio la sua una pratica di decostruzione che mette in campo un punto di vista forte ma che al tempo stesso non vuole imporlo lasciando dunque le fratture palesarsi e all’interno di esse lo spettatore trovare a sua volta possibili piste.

Un momento di «Capolinea» (Terminus) di Laila Pakalnina

Di altro segno è Capolinea di Laila Pakalnina, grandissima narratrice della realtà attraverso i suoi dettagli che qui sposta la prospettiva di osservazione, di solito riprese statiche, per una macchina che è in costante movimento – «la prima volta nei miei film» ha detto. Siamo a Riga, nel bianco e nero senza dialoghi seguiamo i bus e i tram cittadini al capolinea, un movimento incessante, che attraversa le stagioni, e disegna una geografia umana e fisica dei luoghi. Cieli, periferie, strade più o meno anonime, gesti che si ripetono con la neve e con le luci chiare della primavera. Quasi una ballata urbana nelle sue differenze, un respiro quotidiano in cui riconoscere il senso del tempo.



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