Gli anni ruggenti di Palermo, la mafia dei giardini e quella dei cantieri

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Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per una ventina di giorni pubblichiamo le inchieste de “I Siciliani”, ringraziando la Fondazione Fava che ci ha concesso la divulgazione


Lo abbiamo detto! Per capire la Sicilia degli anni ottanta bisogna per lo meno avere chiaro il concetto di mafia, anzi più esattamente capire cosa è diventata oggi la mafia. Dovete avere pazienza se partiamo da lontano, ma il racconto è sempre terribile e sempre affascinante. Partiamo dunque da un tale che si chiamava Tanu Alati, un uomo di corporatura gigantesca che abitava alla periferia di Palermo, dove una volta i tuguri dei poveri si arrestavano dinnanzi agli inviolabili muri di cinta degli aranceti.

Tanu Alati era alto un metro e novanta, uccideva un cavallo con un pugno, in tutta quella periferia non c’era alcuno che lo potesse contrastare ed infatti, pur essendo egli un disoccupato analfabeta, era il signore della zona. Viveva da signore. Oltretutto aveva una capacità micidiale, cioè era capace di estrarre due pistole in un baleno e sparare contemporaneamente, colpendo dieci bersagli diversi in dieci secondi. Rassomigliarlo ad un personaggio da western sarebbe grossolano e abusato. Diciamo roba da olimpiade.

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Per uccidere Tanu Alati venne fatto venire un killer specializzato dall’America, dicono un omino dolce e biondo, taciturno, il quale da cento metri di distanza, con un fucile a cannocchiale riuscì a piazzare un proiettile esattamente dietro l’orecchio sinistro di Tanu Alati.

Era ovviamente un fucile col silenziatore: flip, proprio un ronzio dolce da calabrone, e Tanu Alati spalancò un occhio, si mise quasi sull’attenti e cadde morto con la faccia in giù. Era un piccolo ras di periferia, un mafioso da grand guignol, e il suo assassinio, in mezzo a centinaia e migliaia di altre morti, non avrebbe alcuna rilevanza nemmeno spettacolare, se Tanu Alati non fosse stato il primo a cadere nella guerra, poi sempre più atroce, fra la mafia dei giardini e quella dei cantieri.

Dovete garbatamente consentire che io vi spieghi cos’era l’una e cos’era l’altra, in modo che possiate poi infallibilmente capire tutto il resto e seguire con immutata passione la storia. La mafia dei giardini era quella che dominava la provincia di Palermo, e infatti era chiamata anche la mafia dei cafoni.

Era padrona di tutti paesi dell’interno, amministrava la erogazione dell’acqua agli aranceti, le assunzioni nei pubblici uffici, i contributi di assistenza, il mercato del bestiame e quello degli agrumi, gli appalti delle piccole opere pubbliche paesane e soprattutto i voti elettorali.

Questa era la sua vera immensa forza. Governando infatti in un ambiente umano miserabile, con mezzi di coercizione o affabulazione diretti, cioè il posto, la raccomandazione, il contributo, il minuscolo appalto, riusciva ad essere praticamente padrona di migliaia di esseri umani la cui vita, anzi la cui sopravvivenza, dipendeva in parte dalla amicizia del ras locale.

Migliaia di voti dunque che i mafiosi potevano destinare per l’uomo politico più disponibile alla gratitudine in ogni senso: raccomandazioni a livello più elevato, stanziamenti pubblici, assunzioni regionali.

Questa era la mafia dei giardini.

La sua eminenza era Genco Russo di Mussomeli che, a Palazzo d’Orleans, era ricevuto da funzionari e uomini politici come un venerabile, che amministrava da quindici a ventimila voti di preferenza nella sua zona, e governava però la struttura con la benevolenza del feudatario arroccato nella sua montagna lontana. Che i valvassori facessero quello che volevano, purché fosse fatto con garbo e prudenza.

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La mafia dei cantieri invece era ancora poco più della criminalità comune, cioè aveva una «facies» gangsteristica. Usava già mitra, pistole militari, esplosivi. Il suo era un nome improprio: il nucleo centrale una volta governava le assunzioni ai cantieri navali di Palermo, ma poi la sua avidità criminale si era estesa a settori molto più preziosi: il contrabbando delle sigarette, la prostituzione, il mercato ortofrutticolo e quello delle carni, il mercato degli elettrodomestici, il controllo di tutte le rappresentanze industriali. Erano gli anni del cosiddetto boom economico, decine di migliaia di famiglie volevano il televisore, la lavastoviglie, il frigorifero, un giro di decine di miliardi.

In quel tempo i capi erano i fratelli La Barbera, eleganti, capelli impomatati stile anni trenta, giacche bianche, occhiali neri, Alfa Romeo spider.

Le due mafie, quella dei giardini e quella dei cantieri si erano talvolta sfiorate alla periferia di Palermo, scaramucce soltanto, qualche morto per equivoco, poi ognuno era arretrato sulle proprie posizioni. Non c’erano interessi per cui contendere. Improvvisamente però accadde un fenomeno che dapprima apparve solo un fatto sociale e poi di colpo si trasformò anche in uno spettacolare massacro. Cioè accadde che Palermo, capitale della Regione, non ebbe più modo di contenere la sua popolazione.

In pochi anni erano arrivati decine di migliaia di impiegati, funzionari, bidelli, uscieri, deputati, segretari, piccole coorti politiche si erano trasferite da tutta l’isola a Palermo, e con loro una moltitudine crescente di persone che speravano di trovare nella baraonda politica e commerciale una sistemazione: studenti disoccupati, piccoli negozianti di paese, minuscoli albergatori, mediatori, puttane, ruffiani, contadini che volevano fare i muratori, borsaioli, avvocati e medici di provincia, geometri, manovali.

La popolazione si ingigantì, cominciò a straripare. Dov’era un tempo la distesa di tuguri infami, una folla di appaltatori, talvolta con pochi milioni in tasca, cominciò a costruire edifici.

A volte arrivavano al secondo piano, si fermavano, vendevano e cominciavano a costruire altri due piani, vendevano ancora e cominciavano a ricostruire, selvaggiamente.

A Palermo ci sono quartieri deliranti. La devastazione dilagò nei giardini di agrumi, ad est ed ovest della città, alcuni proprietari tentarono di resistere, ma furono dissuasi in un baleno, interi agrumeti abbattuti in una notte a colpi d’ascia, incendi misteriosi, tre o quattro campieri morti.

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Gli epigoni del «Gattopardo», gli eredi delle ultime tenute nobiliari che ancora facevano corona a Palermo, vendettero la loro terra pur di uscire dall’inferno e gli antichi, famosi feudi di Briuccia, Terrasi, Cornigliera, Villa Sperlinga, che avevano ospitato per centinaia di anni le più splendide famiglie siciliane, conti, duchi, principi, furono sbriciolati in un baleno e lottizzati.

Su tutta quella immensa area, che costava cinquecento lire al metro quadrato, e in pochi mesi veniva pagata anche centomila lire al metro, aveva giurisdizione la mafia dei giardini, ma con uno scatto imprevedibile si era avventata la mafia dei cantieri che si trascinava appresso un turbine di altri giganteschi interessi, le assunzioni di migliaia di operai, la progettazione di centinaia di palazzi, la mediazione nei contratti di acquisto e di vendite, le forniture di tutto il materiale edilizio, ferro, cemento, porte, finestre, strutture, vetri, rubinetti, cessi, bagni, tegole.

Nuvole di denaro. Attorno alla piccola fungaia candida e squallida di grattacieli che già si levava nella campagna di Palermo si scatenò la guerra sanguinosa fra le due mafie. Furono gli anni ruggenti di Palermo.

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