Così il debito internazionale schiaccia i Paesi più poveri del mondo

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Saldo e stralcio

 


Sono scoppiate all’improvviso, infiammando le strade della capitale Nairobi. Iniziate lo scorso giugno, nel giro di poche settimane le proteste contro le politiche del presidente William Ruto hanno scosso il Kenya, costringendo il governo a un precipitoso passo indietro.

Organizzate online, apparentemente senza il sostegno dell’opposizione, le manifestazioni hanno spinto Ruto a ritirare le proposte per aumentare le tasse e rimuovere quasi tutti gli esponenti del suo governo (poi rinominati).

Le ragioni delle proteste, in cui hanno perso la vita più di 60 persone, sono strettamente legate al peggioramento della situazione economica del Paese che, dopo la pandemia di Covid-19 e il mutamento del contesto macroeconomico, ha dovuto fare i conti con un debito sempre più ingestibile e poi con le richieste del Fondo monetario internazionale.

Conto e carta

difficile da pignorare

 

Una situazione di crisi che ha colpito anche le finanze di altri Paesi in via di sviluppo, messe alla prova dalle decisioni della Federal Reserve e delle banche centrali dei Paesi occidentali. Solo nell’Africa sub-sahariana sono 19 i Paesi che non sono in grado di ripagare il debito o che vengono considerati ad alto rischio.

Negli ultimi dieci anni, secondo la Banca mondiale, gli interessi pagati dai 75 Paesi più poveri del mondo, più della metà dei quali in Africa, sono quadruplicati, arrivando nel 2024 a 185 miliardi di dollari. I dati dell’istituto di Washington indicano che, tra i Paesi più poveri, la spesa totale per onorare il debito supererà le spese annuali per sanità, istruzione e infrastrutture. 

Squilibri globali
Il problema del debito nei Paesi in via di sviluppo non è nuovo ma è diventato ineludibile dopo gli ultimi aumenti dei tassi nei Paesi occidentali. Le politiche aggressive adottate contro l’inflazione hanno portato a un inasprimento generalizzato delle condizioni di finanziamento, mettendo a rischio i Paesi ai margini del sistema finanziario globale. I titoli delle economie in via di sviluppo sono diventati meno appetibili, sobbarcando di costi aggiuntivi i Paesi più poveri, già alle prese con le difficoltà legate alla pandemia. Il nuovo contesto ha costretto i governi a tagliare investimenti e servizi essenziali, proprio dove ce ne sarebbe più necessità.

Un cambio di paradigma che ha messo in difficoltà anche Paesi che fino a qualche anno fa erano considerati casi di successo. Come l’Etiopia, che a fine 2023 è diventato il terzo Paese africano a dichiarare default dal 2020.

Considerato uno dei Paesi più poveri del mondo negli anni ’80, quando è stato colpito da una delle peggiori carestie di sempre, nel decennio successivo ha imboccato la strada che l’ha portata a diventare una delle “Tigri africane”, parte di un ristretto gruppo di Paesi con un modello di sviluppo che alcuni paragonavano alle economie emergenti asiatiche. Nonostante alcune dispute sulle cifre, gli osservatori sono concordi nel ritenere che nel nuovo millennio l’Etiopia ha fatto registrare tassi di crescita molto elevati. Secondo alcune stime, dal 2004 al 2019 il Pil dell’Etiopia è cresciuto di circa il 10 per cento all’anno.

Alla crescita si è accompagnato, almeno in parte, il progresso sociale. Secondo l’Organizzazione mondiale della Salute (Oms) dal 2000 al 2015 il tasso di mortalità dei bambini sotto i cinque anni è diminuito di quasi due terzi, mentre dal 1990 al 2014 il tasso di mortalità materna è sceso del 70 per cento. Alcuni di questi passi in avanti rischiano però di sfumare.

Negli anni a cavallo della pandemia, l’ambizione del giovane premier Abiy Ahmed e il suo tentativo di accentrare il potere hanno rotto gli equilibri su cui si reggeva la coalizione rimasta al governo per tre decenni. Nel 2020, un anno dopo la vittoria del Nobel per la pace per lo storico accordo con l’Eritrea, è scoppiata la guerra civile nel Tigray, che ha causato centinaia di migliaia di vittime e ha riportato lo spettro della destabilizzazione nel Paese e nel Corno d’Africa.

I costi della pandemia e della guerra civile (terminata nel 2022) hanno finito per pesare sul costo del debito, diventato la spesa più rilevante per lo Stato etiope, mentre gli investimenti in molti settori critici per lo sviluppo sono rimasti al palo. Dopo il default, a luglio anche Addis Abeba ha finito per chiedere l’aiuto del Fondo monetario internazionale, assicurandosi un prestito quadriennale da 3,4 miliardi di dollari.

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Fermare Russia e Cina
La questione del debito va al di là della salute economica dei singoli Paesi e, secondo molti esperti, rischia di diventare un problema geopolitico.

In media, un terzo dei 75 Paesi che possono beneficiare degli aiuti dell’Associazione internazionale per lo sviluppo (Ida) della Banca mondiale sono più poveri rispetto a prima della pandemia. Un calo che la banca ha descritto come «un ribaltamento storico» dal punto di vista dello sviluppo.

Diversi osservatori occidentali hanno invocato un intervento dei governi e delle istituzioni internazionali per fermare la spirale, nel timore che finisca per favorire i rivali dell’Occidente. «Il miglioramento delle condizioni economiche e politiche in Africa sarà essenziale per preservare l’ordine internazionale che Paesi come Cina e Russia sembrano determinati a ribaltare», ha avvertito l’ex capo economista della Banca mondiale, Anne Krueger.

Per capire cosa si intende basta guardare al Niger dove, dopo il colpo di stato di luglio 2023, la nuova giunta militare ha posto fine ad importanti accordi militari con gli Stati Uniti e ha accolto nel Paese le forze russe. Quello in Niger è il settimo colpo di stato portato a compimento in Africa nei tre anni dal 2021, dopo quelli avvenuti in Ciad, Mali, Sudan, Guinea, Burkina Faso e Gabon.

Per scongiurare l’avanzata delle potenze guidate da Xi Jinping e Vladimir Putin, Krueger chiede a Stati Uniti e ai membri dell’Unione Europea di appoggiare gli sforzi di istituti internazionali come il Fondo monetario internazionale (Fmi) a sostegno delle riforme nei Paesi africani. Ma è proprio nei Paesi più in difficoltà che l’intervento del Fmi è meno popolare.

Durante le proteste in Kenya sono stati portati in strada cartelli contro il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale, accusati di aver causato la crisi. «Fmi, Banca mondiale, stop alla schiavitù moderna», recitava uno degli slogan. In tutta Nairobi, secondo quanto riportato da al-Jazeera, sono comparsi graffiti contro le organizzazioni internazionali.

L’accordo con il Fmi risale all’aprile 2021, quando l’attuale presidente Ruto era il vice del predecessore Uhuru Kenyatta. Al prestito di quattro anni, in scadenza ad aprile, si sono poi aggiunti altri finanziamenti per affrontare il cambiamento climatico, portando il totale a 3,6 miliardi di dollari.

Finanziamenti e agevolazioni

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Come condizione, il Fmi ha chiesto di aumentare le tasse, ridurre i sussidi e tagliare gli sprechi. Una volta insediato a settembre 2022, Ruto ha subito lanciato un segnale, sospendendo le sovvenzioni sul carburante e sul mais. Dopo meno di un anno è stato costretto a ripristinarle a causa delle proteste indette contro le nuove tasse, che includevano il raddoppio delle accise e una tassa sugli alloggi per i lavoratori dipendenti. 

Il preludio di quanto accaduto la scorsa estate, dopo che il presidente keniano ha cercato di far passare una maxi stangata da oltre 2 miliardi di dollari. Il pacchetto, che comprendeva tasse su auto, transazioni finanziarie e prodotti di prima necessità come pane, olio e zucchero, avrebbe dovuto finanziare programmi di sviluppo e ridurre il debito pubblico (pari al 68 per cento del Pil). Ha innescato invece feroci proteste che hanno costretto Ruto a rinunciare ai suoi piani. L’annuncio è arrivato il 27 giugno: due giorni prima la polizia aveva aperto il fuoco sui manifestanti che erano riusciti a fare irruzione nella sede del parlamento e avevano costretto i deputati alla fuga.

Per colmare il buco da 2,7 miliardi di dollari nel bilancio e continuare a onorare il debito, che ogni anno assorbe il 70 per cento delle entrate, Ruto ha proposto un mix di tagli e nuovo indebitamento. Le misure annunciate includono l’eliminazione di 47 aziende statali, il dimezzamento del numero dei consiglieri governativi e l’eliminazione delle provviste per le mogli del presidente e del vice.  «Credo che questi cambiamenti metteranno il nostro Paese su una traiettoria verso la trasformazione economica», ha affermato. 

Ma negli ultimi mesi le tensioni non si sono allentate. Un’ondata di sequestri iniziata dopo le proteste della scorsa estate ha portato le organizzazioni per i diritti umani a denunciare le sparizioni di diversi attivisti e oppositori. Una pratica che non ha risparmiato il figlio di un ministro e il leader dell’opposizione ugandese, riportato oltre confine e trascinato di fronte a una corte marziale.

Quali soluzioni?
In un rapporto del Finance for Development Lab (Fdl), un think tank con sede a Parigi, gli economisti Ishac Diwan, Martin Kessler e Vera Songwe hanno suggerito un cambiamento di approccio. Secondo i tre esperti, molte di queste crisi dovrebbero essere considerate problemi di liquidità a breve termine e non di solvibilità. L’indicazione per questi casi è quella di «riprogrammare» il debito, allungando le scadenze, per scongiurare misure più drastiche. La distinzione tra illiquidità e solvibilità è finita anche al centro della disputa tra l’Etiopia e i suoi creditori, che hanno rigettato la proposta di un taglio del 18 per cento al valore del debito dopo il default di fine 2023. Questo perché, secondo i creditori, Addis Abeba avrebbe solo un problema di liquidità. Di diverso avviso il governo etiope, che considera l’”haircut” un elemento essenziale del proprio piano di rientro.

Il rapporto del Fdl, citato in un articolo su Foreign Affairs da Mark Suzman, a capo della Bill & Melinda Gates Foundation, consiglia un «programma ponte» in base al quale i Paesi che affrontano problemi di liquidità otterrebbero nuovi investimenti dalle banche multilaterali di sviluppo e una riprogrammazione delle scadenze da parte dei creditori. Secondo Sulzman, per aiutare i Paesi a basso reddito a uscire dalla crisi e tornare alla crescita i governi dei Paesi più ricchi dovrebbero inoltre aumentare i finanziamenti per i programmi della Banca mondiale e basarsi su passate iniziative per la riduzione del debito, come quella coordinata dal G-20. Secondo il dirigente della fondazione creata da Bill Gates e dall’ex moglie Melinda, «i leader mondiali hanno il potere di scrivere una nuova storia, che favorisca un circolo virtuoso di sviluppo, non un decennio di opportunità perse per 1,5 miliardi di persone».

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Per l’economista Jeffrey Sachs, uno dei problemi da affrontare è il modo, giudicato «molto miope», in cui operano le agenzie di rating. «Se sei povero, vieni declassato. Se sei un Paese piccolo, vieni declassato. Se non sei un Paese nella zona del dollaro o dell’eurozona, vieni declassato. È meccanico», ha detto il professore della Columbia University. Secondo l’esperto di economia dello sviluppo, intervistato da Cnbc, se le agenzie considerassero invece la crescita a lungo termine, «vedrebbero che l’Africa diventerà un continente molto, molto più ricco nei prossimi 30, 40 anni». Il problema riguarda anche il Fmi e la Banca mondiale. «Ho formato molte di quelle persone, sono miei studenti. Ma il modo in cui applicano l’analisi dei rischi è estremamente miope e l’Africa viene punita». 

Un’altra questione riguarda la durata eccessivamente breve dei prestiti. «Le prospettive di sviluppo dell’Africa sono estremamente positive, ma richiedono prestiti di 25, 30 o 40 anni» e non da 7 o 9 anni». Secondo Sachs, il problema per i titoli dei Paesi africani è l’assenza di liquidità, che rende complicato collocare nuovo debito sul mercato. «Quindi il mio messaggio basilare è: “Debito a lungo termine per uno sviluppo a lungo termine”». Un approccio «perfettamente sensato» perché «l’Africa ha il maggiore potenziale di crescita del mondo intero».





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