Le nuove frontiere dell’intelligenza artificiale, i social network e le fake news, il futuro della globalizzazione: Jerry Kaplan, scienziato, imprenditore e innovatore seriale, tra i pionieri della Silicon Valley, restituisce come pochi uno sguardo dall’interno sulle proiezioni del nostro tempo, affrontando le questioni centrali poste dall’innovazione tecnologica che ridefinisce i confini della nostra esistenza.
«Nella mia vita ci sono state tre grandi ondate dell’intelligenza artificiale, ognuna delle quali ha usato differenti approcci e ha risolto problemi diversi». Oggi siamo nella terza ondata con la rivoluzione dell’intelligenza artificiale generativa (Gai) che esplora nel libro Generative A.I. (Luiss University Press): «Questi programmi possono ingaggiare una conversazione umana – racconta Kaplan – Possono elaborare bozze di documenti legali, video e fotografie realistiche. Possono anche scrivere componimenti poetici. Finora non avevamo mai considerato creativi i computer. Ora possono esserlo ed è rivoluzionario». Kaplan, che ha lavorato con John McCarthy, uno dei padri dell’intelligenza artificiale, ed è stato inventore e promotore di numerose imprese di successo dell’hi-tech e del web, non si sottrae alle questioni etiche e sociali che essa solleva.
Che cosa rappresenta ancora l’avventura della Silicon Valley e dove proietta l’innovazione?
«La Silicon Valley è viva e fiorente. Continua a fare bene ciò che contraddistingue la sua storia. Ora c’è una nuova ondata d’investimenti per le start-up dell’IA. La gran parte di questi soldi e società non sopravvivranno. Come è sempre avvenuto, quelle che avranno successo offriranno prodotti e servizi che incidono sui consumi globali e cambieranno l’offerta di cui beneficeremo. È un business unico non vedo la necessità d’intervento governativo o di altri cambiamenti».
Oggi esistono previsioni attendibili sull’impatto della Gai?
«Nei prossimi cinque o dieci anni mi attendo che non sentiremo più parlare della Gai, perché sarà semplicemente incorporata nel nostro stile di vita e lavoro. Sarà applicata con grandi risultati in medicina, educazione, legge, programmazione informatica e arti. Alla maggioranza delle persone aprirà vie più semplici per l’uso dei dispositivi e di applicazioni migliori, senza particolari conoscenze tecnologiche».
L’informazione sull’automazione e sul futuro del lavoro le appare distorta?
«La percezione pubblica della Gai non è accurata. Quest’ultima non rende le macchine più “intelligenti”, ma migliora l’automazione che modifica la natura del lavoro e lo crea in nuove forme. Come è accaduto con Internet che ha eliminato molti lavori, ma ne sono nati altrettanti».
Quanto è concreta l’idea che i robot possano sottrarre il lavoro anche a giornalisti, dottori o avvocati?
«I robot non “ruberanno” il lavoro a nessuno. La nuova ondata di automazione renderà queste e altre categorie professionali più produttive. Nel breve termine questo processo potrà mettere delle persone fuori dal lavoro, ma al contempo creerà dei servizi molto meno costosi che incrementeranno la domanda e paradossalmente la necessità di queste figure professionali. Cambierà sostanzialmente il loro modo di lavorare».
Come lei analizza, la Gai può diventare uno strumento per la propaganda. Questo è il rischio principale che il mondo dei numeri pone alle democrazie?
«La Gai semplifica la creazione di qualsiasi documento scritto. Sfortunatamente questo consente di produrre una grande quantità di disinformazione. Gli effetti negativi appaiono già evidenti. Il mondo ha imparato a vivere con lo spam, sviluppando strumenti che ne riducono l’impatto. Lo stesso dovrà accadere per la propaganda generata dai computer, costruendo con la Gai strade per ignorare selettivamente le comunicazioni indesiderate».
Le politiche dei social network determineranno sempre più il confine tra il vero e il falso con l’eliminazione del fact checking?
«Questione gigante. È cruciale il dibattito sulla prevalenza dell’accuratezza dell’informazione veicolata dai social network. La Gai non presenta una soluzione in questo senso, infatti uno dei problemi dell’attuale chatbot è che non possono distinguere facilmente tra l’informazione vera e quella falsa, basandosi su una larga raccolta delle cose scritte dalle persone, che possono essere vere e false».
Quale trasparenza degli algoritmi dovremmo pretendere dalle piattaforme social che diventano fattori della competizione politica?
«I governi devono regolare la materia della trasparenza degli algoritmi che avremo con la Gai. Come trovare il bilanciamento tra la trasparenza e la segretezza è una questione politica e sociale. Le compagnie private tendono naturalmente a non rilasciare troppe informazioni sul funzionamento dei propri prodotti. Tuttavia piattaforme come Meta hanno in “open source” gli strumenti della propria Gai. Chiunque può accedere e apportare i cambiamenti».
Chi controllerà il suo sviluppo e i servizi?
«Si pone la stessa domanda sul controllo di Internet. Sicuramente ci sono le grandi compagnie e i governi che esercitano un’influenza significativa sulle modalità di sviluppo, sulla gestione e sull’utilizzo, ma in generale resta una tecnologia aperta e diffusa. Sarà lo stesso per la Gai. Nascerà un ecosistema vibrante per tutti gli strumenti che alimenteranno questa rivoluzione. Nessuna compagnia o istituzione regolerà la Gai».
Chi orienta gli investimenti?
«Ora le grandi aziende investono pesantemente nell’implementazione dei sistemi e degli strumenti della Gai. Ma non mancano le piccole compagnie, le università e i laboratori di ricerca che stanno facendo un lavoro eccellente. Questo processo avrà riflessi sui prodotti e servizi su larga scala, ma resterà invisibile ai consumatori». Qualcosa è andato storto nella globalizzazione? «A livello commerciale la globalizzazione ha mantenuto le promesse: prodotti migliori e più economici; incremento del commercio e della ricchezza. Il problema è che il nuovo benessere creato non è stato redistribuito equamente».
La redistribuzione della ricchezza segnerà la globalizzazione?
«È una questione sociale non del sistema economico. Se ognuno ricevesse una quota ragionevole della nuova ricchezza prodotta, ritengo che verrebbe meno l’opposizione alla globalizzazione. Ma non accade. Non dovremmo uccidere la gallina dalle uova d’oro, ma distribuire meglio queste uova. La globalizzazione sopravvive se assicura benefit a tutti».
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