Docente di Fisica Teorica al Politecnico di Torino, di cui ha fondato e diretto per molti anni la Scuola di Dottorato, è stato al vertice Isi Foundation.«Serve un Cern dell’Ai, non mille centri di ricerca. Così siamo fuori gioco»
«Ci serve un Cern europeo sull’intelligenza artificiale, non tanti centri ricerca locali come succede ora a Torino. Se non ci muoviamo a livello comunitario rischiamo di diventare in pochi anni un Paese in via di sviluppo».
Mario Rasetti, professore Emerito di Fisica Teorica al Politecnico di Torino, di cui ha fondato e diretto per molti anni la Scuola di Dottorato, è stato a lungo al vertice Isi Foundation, il centro per i big data sostenuto da Fondazione Crt e oggi fa parte del comitato scientifico CentAi, il centro per l’intelligenza artificiale in ambito finanziario di Intesa Sanpaolo.
«Dieci anni fa all’Isi eravamo come Open Ai di Sam Altman, 50 ricercatori noi e 50 loro. La differenza l’ha fatta Microsoft che ha dato ad Altman 400 milioni e lui ha sviluppato ChatGpt. Ora hanno lanciato un piano da 7 mila miliardi, tre volte il Pil italiano. Così non possiamo competere».
Professor Rasetti, a Torino è nato il centro nazionale Ai4Industry, accanto ad altre iniziative. Partiamo tardi?
«Non siamo in partita. Oggi il gioco dell’Ai, che è il futuro della nostra società, riguarda Usa e Cina. L’Europa prova a fare da arbitro, mettendo regole che rispetteremo solo noi, non certo in America o a Pechino. Se vogliamo tornare in partita servono enormi investimenti e una politica comune. Figurarsi se ci dividiamo in città in tanti progetti».
Siamo spacciati?
«Se non facciamo fronte comune resteremo ai margini. In Cina e negli Usa l’Ai è un tema energetico perché via dei consumi. E infatti Microsoft e Google acquisiscono centrali nucleare che possano alimentare data center e super-calcolatori di calcolo. Pensiamo davvero di poter competere?».
Una volta si diceva e il tessuto produttivo fatto di Pmi non poteva competere con le grandi corporation. Invece le Pmi si sono specializzate diventando multinazionali tascabili. Succederà anche l’Ai?
«Forse con i piccoli programmi di linguaggio corporate, quindi sviluppati per scopi interni alle aziende. Per il resto vedo derive pericolose: tre anni fa quando era a capo di Isi Foundation abbiamo perso due bravi ricercatori con una telefonata dagli Stati Uniti. Google ha offerto a questi giovani di 27-28 anni in post-dottorato di 350 mila dollari di salario annuale. Ricapitolando: non abbiamo la grande industria e rischiamo di perdere tutti i talenti».
Lo sforzo della città per mettersi alla spalle la stagione da one company town dell’auto rischia di essere velleitario?
«Sì, fino a che mancherà una politica comune europea. La nostra ricerca sbriciolata in mille rivoli rischia di essere poco efficace, giusto una palestra per addestrare giovani che vanno a lavorare all’estero».
È il caso di tenerci stretta la vecchia industria?
«L’Ai è un cambio di paradigma che modificherà la nostra società. Diventare solo consumatori finali è un rischio troppo alto anche per la nostra industria».
L’Ai cancellerà tante professioni e sostituirà l’uomo?
«Dubito che si arriverà al’Ai in grado di replicare integralmente il nostro cervello. L’Ai è il futuro ma resterà una pratica. Il problema è che chi gestirà questi dati governerà il mondo e l’economia».
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