Guerra, l’Europa vuole armarsi e spendere di più per la difesa
L’Unione europea è confusa sulla sua stessa difesa. Nel giro di poche ore, mercoledì 22 gennaio ci sono stati tre interventi dei vertici istituzionali che, sullo stesso argomento, hanno comunicato sensazioni diverse. Il presidente del Consiglio dell’Ue, il premier polacco Donald Tusk, ha sottolineato la necessità del riarmo per far fronte a un’eventuale guerra e per dare all’Europa un posto nel mondo alla pari delle grandi potenze; l’Alta rappresentante per gli Affari esteri Kaja Kallas ha detto con scarso entusiasmo che, se non siamo in tempo di pace, ancora non siamo in guerra; infine, il commissario alla Difesa, Andrius Kubilius, ha lanciato l’allarme contrario: “Siamo già sotto attacco” da parte della Russia.
Tre discorsi differenti, che segnalano un’incertezza di fondo su come agire riguardo alla considerazione comune da cui scaturiscono: l’Ue deve fare di più per proteggersi, perché con Donald Trump l’appoggio degli Stati Uniti appare meno scontato. “La festa è finita”, ha detto chiaro e tondo Tusk nel suo discorso sulle priorità del suo semestre presidenziale pronunciato davanti al Parlamento. Per il premier polacco, l’Ue non è debole, anzi può essere “una potenza pari alle più grandi”. Per riuscirci, però, “deve essere armata” e per farlo c’è bisogno di smettere di “risparmiare sulla sicurezza”.
La sua Polonia spende già il 5% del pil per la difesa, ben oltre il target Nato (2%), e per questo ha invitato gli altri paesi a fare lo stesso. Tuttavia, Tusk è contrario alla creazione di un esercito comune europeo: troppo complesso il tema della leadership, con il rischio che se fosse guidato da paesi vicini alla Russia potrebbe addirittura essere non solo inefficace ma anche controproducente: “Il mio intuito mi dice che se fosse Budapest a decidere, questo esercito europeo andrebbe purtroppo in una direzione diversa rispetto a quella che deciderebbe Varsavia”, ha detto Tusk riferendosi alle posizioni filoputiniane di Viktor Orban.
Parole simili sono state usate dall’Alta rappresentante Kaja Kallas. L’ex prima ministra estone ha parlato all’Agenzia europea per la difesa (Eda) di cui è presidente, ma il suo è stato un discorso fatto più di slogan, per di più scanditi – riferisce chi l’ha ascoltata in diretta – in maniera esitante e monotona.
“L’Europa spende miliardi per le scuole, la sanità e la protezione sociale, ma se non investiamo di più nella difesa, tutto questo è a rischio”, ha detto, senza però accennare a come poter finanziare queste spese. Per i critici, quello di Kallas è stato un discorso senza visione: se Tusk ha delineato un futuro preciso per l’Ue – un futuro in cui l’Europa può essere protagonista e non solo scudiera degli Usa – l’Alta rappresentante non ha fatto lo stesso: non ha commentato le prospettive aperte dal Trump 2.0, non ha detto come intende agire nei vari scenari in cui l’Ue può recitare un ruolo. Solo, rispetto alla questione russa, ha richiamato le parole del segretario generale della Nato Mark Rutte, secondo cui “non siamo in guerra, ma nemmeno in pace”.
Opinione contraddetta poco dopo, sempre davanti all’Eda, dal commissario europeo alla Difesa, il lituano Andrius Kubilius. “Siamo già sotto attacco, a terra, in mare, nell’aria e nel cyberspazio”, ha affermato. Si tratta di “una guerra di nuova generazione” fatta di “propaganda, sabotaggio e aggressione militare vera e propria”, fattori che insieme la rendono una “guerra totale”. Per Kubilius, gli obiettivi principali dell’Ue devono allora essere quelli di aumentare la capacità produttiva del continente in materia di armamenti, il rafforzamento dello scudo informatico, di quello spaziale e soprattutto il potenziamento del confine nord-orientale. “Putin”, ha detto, “potrebbe non fermarsi all’Ucraina”.
Quel che emerge è che, per tutti e tre, allo stato attuale l’Europa non basta a sé stessa per far fronte alle proprie esigenze di difesa. Il tenore dei discorsi, però, è ben diverso: preciso e orientato al futuro il primo, incerto e vago il secondo, simil-catastrofico il terzo. Una confusione che rispecchia quella che regna sul come far fronte alla necessità di spendere di più se i paesi sono riluttanti: l’idea di finanziare le spese con un debito comune ad hoc, oppure lo scorporo di quelle spese dal patto di stabilità, sono, a oggi, sono ancora dei tabù.
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