Giorno della memoria: «L’Oro di Mori» – Di Maurizio Panizza

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La storia del dott. Riccardo Grigolli che nel corso della Seconda Guerra Mondiale salvò una famiglia ebrea rischiando la vita. Il racconto del nipote Germano, 90enne

Maurizio Panizza, nostro collaboratore e Vicepresidente dell’Ordine dei Giornalisti del Trentino-Alto Adige, in occasione dell’80° anniversario dalla liberazione di Auschwitz, ci ripropone questa storia (già pubblicata da l’Adigetto.it quattro anni fa) che fa memoria di un medico trentino che a Vicenza, verso la fine del 1943, nascose e salvò una famiglia ebrea.
Nel 2011 il nome di Riccardo Grigolli è stato inserito nella voce «Memoria della Salvezza» da parte del Centro di Documentazione Ebraica di Milano «come luminoso esempio alle generazioni future a cui stanno a cuore i valori civili di solidarietà, pace e di giustizia».
_________________

Da molti secoli l’antico casato dei Grigolli affonda le radici nella comunità di Mori e in quelle dei territori vicini.
Basterebbe
scorrere l’albero genealogico di famiglia per capire come, nel tempo,
la storia dei suoi componenti (nobili del Sacro Romano Impero sin dal
1600) si sia incrociata per matrimonio con altri casati ugualmente
importanti della borgata, come ad esempio quello dei baroni Salvotti o
dei baroni Salvadori de Wiesenhof.
Ma non solo. I Grigolli possono
vantare fra le proprie fila pure una camicia rossa, tale Andrea, morto a
59 anni nel 1878, quattro anni prima della scomparsa di Garibaldi, agli
ordini del quale partecipò ad alcune delle sue guerre di conquista.
Agli
inizi del Novecento – periodo in cui prende origine la storia di cui
vogliamo raccontare – a Mori i rami dei Grigolli sono rappresentati da
quattro linee distinte. Fra queste, a noi interessa quella di Germano
(1860-1931) perché è da lì che discenderanno, poi, sia il protagonista
che il testimone di questa vicenda.
Partiamo allora dal capostipite
che all’epoca è sposato con Margherita Grigolli (una sua cugina) e che
da lei ha avuto sei figli: una femmina e cinque maschi.
Di questi
ultimi, due moriranno bambini, mentre gli altri – Bruno, Riccardo e
Ermino – entreranno a pieno titolo nella storia famigliare perché se i
primi due verranno avviati agli studi universitari (cosa rara a
quell’epoca), a Erminio toccherà invece di portare avanti la grande
azienda agricola, orgoglio della famiglia Grigolli.
Da Erminio,
infine, discenderanno quattro figli e, fra questi, pure un altro Germano
– il prezioso testimone della nostra vicenda – oggi 90enne, molto
conosciuto, assieme al figlio Bruno e al nipote Marco, per i pregiati
vini che la loro cantina di Mori Vecchio produce.
Fin qui, dunque, la premessa. Ora la storia.
 

Germano Grigolli, il testimone di oggi.
 
Tutto
inizia con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che coglie i due
giovani sudtirolesi, Bruno e Riccardo, ancora studenti all’Università di
Padova: il primo in Ingegneria, il secondo in medicina.
Cresciuti
in quegli anni in ambienti culturali irredentisti, quando il 28 luglio
del 1914 l’Austria-Ungheria entra in guerra, Bruno ha 26 anni, mentre
Riccardo appena 20.
Pochi giorni dopo arriva per loro la chiamata
alle armi, ma i due fratelli senza esitazione decidono di disertare e di
partire da Mori per raggiungere il Regno d’Italia.
Di Riccardo
abbiamo un documento del Ministero della Guerra che testimonia del suo
fortunoso passaggio, attraverso le montagne, al di là della frontiera.
Così
si legge: «Il volontario Riccardo Grigolli è arrivato in Italia il 15
settembre 1914 attraversando di notte il Monte Baldo e arrivando al
confine di Bocca di Navene. Successivamente, con l’inizio delle
ostilità, il 25 maggio 1915 è stato arruolato nel Regio Esercito».

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Riccardo Grigolli in divisa.

Da quella data, che segna l’entrata nel
conflitto anche dell’Italia, i due fratelli vengono inviati in zona di
guerra e ben presto nominati entrambi sottotenente: Bruno, nei lagunari,
di stanza sul Tagliamento; Riccardo, nella fanteria sul fronte del
Tirolo Meridionale (Trentino).
Qui il 16 maggio del 1916, mentre
Riccardo si trova a Verona inviato a ritirare la paga per il suo
reparto, Damiano Chiesa è catturato a Costa Violina, sopra Rovereto.
Così
Riccardo scrive in una lettera datata 1 giugno 1916: «Particolari non
ne posso dire. Due nostri fratelli sono caduti: Perotti Mario, di Avio e
Damiano Chiesa, figlio del deputato di Rovereto. Chiesa, come me,
faceva parte della 37ª divisione. Il suo nome di guerra era Angelotti».

Abbiamo
voluto raccontare questo episodio per inquadrare Riccardo Grigolli, il
protagonista di questa storia, prima di fare un salto in avanti nel
tempo.
Finita la Prima Guerra Mondiale, i due fratelli torneranno
alla vita civile molto provati da ciò che avevano visto, ma per fortuna
sani e salvi.
 

1925.
In gita al rifugio Padova sulle montagne bellunesi. Riccardo lo si vede
in camicia bianca, vicino alla bandiera del Club Alpino Italiano.

 
Bruno,
ingegnere, avrà in seguito quattro figli fra cui Giorgio (1927-2016),
futuro Presidente della Provincia Autonoma di Trento. Riccardo, invece,
si specializzerà in dermatologia e malattie veneree venendo inviato in
diverse sedi, prima a Belluno come direttore del dispensario celtico
comunale (ovvero, responsabile delle case di tolleranza), poi come
primario di clinica dermosifilopatica presso l’Ospedale di Vicenza, dove
rimarrà fino al pensionamento.
Lui non si sposò mai, ma da quanto
racconta oggi Germano, suo zio Riccardo fu sempre un gentiluomo, una
specie di casanova a cui non mancarono mai le belle donne.
Aneddoti,
in tal senso, se ne potrebbero riferire diversi, ma per rispetto dei
protagonisti crediamo sia il caso di soprassedere.
Dunque, un latin
lover, come lo chiameremmo oggi, ma anche un personaggio fin da ragazzo
fuori dal comune, onesto, generoso, determinato e avventuroso.
 

In primo piano, a destra, col cappello in mano, Riccardo Grigolli.
 
Si
pensi, ad esempio, che dopo la Prima Guerra, non appena finiti gli
studi in medicina, Riccardo comunicò in famiglia la sua intenzione di
fare il giro del mondo. Ovviamente nessuno diede credito a quel
proposito talmente strano per quei tempi che si pensò semplicemente a
una battuta scherzosa.
Se non che, dopo alcuni giorni, il giovane
acquistò una Fiat 501 usata, e una mattina – per davvero – salutò tutti e
partì all’avventura per il suo lungo viaggio, come promesso.
A posteriori, tuttavia, non si seppe mai se quel giro del mondo
fu poi veramente iniziato, come mai fu dato di sapere fin dove il
giovane semmai arrivò. Qualcuno sussurrò che era stato accompagnato da
alcuni amici e che era arrivato fino in Norvegia.
Di sicuro è che tornò a casa diversi mesi dopo senza rivelare nulla di quanto era successo, così come è certo che quella pazzia,
fatta contro il volere della famiglia, gli costò cara, soprattutto nel
momento in cui il padre lasciò scritte le sue ultime volontà.
Ma
Riccardo era così, cuore e azione, per cui pare non se la prese più di
tanto dedicandosi da lì in avanti con scrupolo e passione alla sua
professione di medico.
 

Anni Venti. Riccardo Grigolli, in prima fila a destra, in compagnia di amici.
 
Fu
negli anni in cui Riccardo soggiornò a Vicenza, più precisamente nei
primi mesi del 1944, che accadde un fatto che Germano non dimenticherà
mai.
La guerra infuriava e gran parte dell’Italia era ancora
occupata dalle truppe del feldmaresciallo Albert Kesselring. Gli Alleati
lentamente risalivano la Penisola e nel Nord del Paese il governo era
in mano ai tedeschi attraverso lo Stato fantoccio della Repubblica
Sociale Italiana.

 
Il dott. Riccardo Grigolli all’Ospedale di Vicenza negli anni ’40, in occasione della visita del Vescovo.
 
«Una
sera, era quasi notte, arrivò a Mori lo zio Riccardo in compagnia di un
signore distinto, – racconta Germano. – Dopo essere entrati con l’auto
nel cortile di casa, scesero con fare circospetto, come quello di chi ha
qualcosa da nascondere.
«Guardandosi attorno, lo zio mi chiese di
aiutarlo a scaricare una grossa cassa in ferro di colore verde scuro.
Avevo allora quattrodici anni ed ero già un ragazzo robusto, tuttavia lo
sforzo per sollevare quella cassa me lo ricordo ancora: il peso era
enorme.
«Mentre l’accompagnatore misterioso rimaneva in cortile, a
piccoli passi, uno dietro all’altro, noi portammo la cassa fin dentro
casa – prosegue Germano – e a quel punto arrivò anche mio padre. Dopo
che fu appoggiata su di un ripiano, lo zio Riccardo anticipò la mia
curiosità e volle farci vedere cosa conteneva. Sollevò piano il
coperchio e in quel momento sia io che mio padre rimanemmo letteralmente
senza parole.
«L’interno – lo ricordo bene – era suddiviso in tre
scomparti. Nei due più piccoli era contenuta un’infinità di oggetti
d’oro, più precisamente in uno c’erano collane, braccialetti e anelli
con pietre preziose; nel secondo, orologi da taschino di varie fogge e
dimensioni con relative catene.
«Ma era il terzo scompartimento,
quello che occupava più della metà della cassa, che mi fece rimanere di
stucco. Fu proprio lì, che lo zio introdusse una mano estraendone un
lingotto d’oro.
«Me lo passò e ricordo lo stupore nel sentire come
quell’oggetto rettangolare, lungo una ventina di centimetri, pesasse
molto più del piombo, ma diversamente da quello, luccicasse come mai
avevo visto prima.»
 

Una cassa simile a quella portata a Mori da Riccardo Grigolli.
 
Ma
di chi era quel tesoro? Era dello zio Riccardo? E perché mai l’aveva
portato a Mori? È sempre Germano a rispondere, dopo che, incuriosito,
gli chiediamo quanti fossero stati, a suo parere, quei lingotti d’oro.
«Erano sicuramente più di dieci – ci risponde – e secondo me pesavano almeno un chilo l’uno.»
Poi ci rivela il mistero che qui di seguito riassumiamo.
Allo
zio Riccardo, primario a Vicenza, era stato presentato da poco un ebreo
di nome Giulio Neiger, che all’epoca abitava in città, più precisamente
in via Cimone.
Questo lo sappiamo perché dopo che Germano ci ha riferito questo nome, abbiamo avviato subito le nostre consuete indagini.
 
In
un documento del 21 giugno 1940, inviato dalla Prefettura di Vicenza al
Ministero dell’Interno, troviamo scritto di tre ebrei arrestati dalla
polizia: uno di questi è proprio il Neiger, «rappresentante di commercio
nato a Vienna nel 1898, ex polacco, apolide».
La Prefettura precisa
che il Neiger «non ha precedenti sfavorevoli e non è ritenuto elemento
di peculiare pericolosità. La famiglia, composta dalla moglie – pure di
razza ebraica – e da tre figli, rispettivamente di 15, 12 e 4 anni,
risiede in città».
 

La casa in cui abitava il dott. Grigolli a Vicenza, al nr. 4 di Via Riale.
 
Per
meglio capire il perché di quell’arresto, è da ricordare che nel
settembre del 1938 erano state promulgate in Italia le cosiddette «leggi
razziali» che stabilivano, fra l’altro, drastici provvedimenti nei
confronti dei cosiddetti «ebrei stranieri».
Ciò che salverà il
Neiger è la circostanza che troviamo più avanti in quel documento, e
cioè che «l’arrestato risiede nel Regno già da prima del 1919» e,
dunque, non considerato fino a quel momento «ebreo straniero».
È
così, che quattro giorni dopo, lui viene liberato, mentre gli altri due
compagni di sventura sono caricati su di un treno e avviati ai campi di
concentramento.
 
Ma torniamo a Mori, dal nostro testimone. Quel tesoro,
ci svela Germano, apparteneva proprio a Giulio Neiger – il misterioso
accompagnatore – ed era stato consegnato allo zio Riccardo perché lo
nascondesse in un posto sicuro. Con molta probabilità l’oro contenuto
nella cassa era quanto ricavato dalla vendita di tutti i beni di
famiglia.
Margherita, sorella di Germano, che in quegli anni per
motivi di studio visse con lo zio Riccardo a Vicenza, in una sua memoria
del 2011 racconta che i Neiger alla fine del 1943 non si sentivano più
sicuri in città. In effetti, dopo l’8 settembre era diventata drammatica
la sorte di tutti gli ebrei i quali, immediatamente, si erano trovati
soggetti alla spoliazione delle loro proprietà e alla deportazione.
Da qui, la decisione di mettere al sicuro tutto ciò che avevano prima di darsi alla clandestinità.
 

L’avvio di ebrei italiani ai campi di sterminio.
 
È
in quei giorni che il dott. Grigolli, prendendosi a cuore le sorti di
quella famiglia, decide di ospitarla in casa sua, nonostante ciò fosse
molto pericoloso per lui, antifascista, già sottoposto a sorveglianza
per via dei rapporti che manteneva con la Resistenza.
Questo ce lo
rivela ancora una volta Margherita, nel suo scritto, quando racconta che
l’ambulatorio di casa dello zio – specialista in malattie veneree – era
frequentato ogni giorno da ufficiali tedeschi e fascisti che per le
loro cure preferivano rivolgersi direttamente al suo studio privato
piuttosto che farsi visitare in ospedale.
Un continuo via vai che fa
scrivere a Margherita: «Ogni volta che suonava il campanello avevo una
gran paura e ancora oggi mi pare di aprire la porta e vedermi davanti
due stivali neri da nazista».
 
Per questo la situazione era
diventata troppo rischiosa sia per lui che per i Neiger che stava
proteggendo. Per tale motivo, dopo una ventina di giorni, Riccardo
deciderà di chiedere aiuto alla Superiora delle Dame Inglesi di Vicenza,
anche lei di origine trentina, la quale dopo molte insistenze alla fine
accetterà di ospitare in convento tutta la famiglia.
«Quella sera,
fui proprio io – racconta oggi Germano – a ricevere l’ordine da mio
padre di prendere piccone e badile per iniziare in un angolo della
stalla una buca. Non fu semplice, ma alla fine, dopo un bel po’ di tempo
e essere arrivato a circa un metro di profondità, lo scavo per
sotterrare la cassa era finalmente concluso. La calammo nella buca
tenendola io e mio padre per le maniglie, mentre lo zio, alla porta, e
fuori il Neiger, sorvegliavano che nessuno arrivasse, né che qualcuno
potesse vedere la scena attraverso i vetri della stalla.»

 
Monte Biaena. Sullo sfondo si intravede Malga Grigolli, dove Riccardo trovò rifugio.
 
Rientrati
a Vicenza il giorno seguente, Riccardo Grigolli sarebbe però tornato
nuovamente a Mori qualche settimana dopo, molto preoccupato. Cosa era
successo?
La rete di protezione che il primario godeva in città e
che fino a quel momento aveva garantito il suo ruolo di collegamento con
la Resistenza, aveva iniziato a sgretolarsi.
Qualche compagno era
stato arrestato e al dott. Grigolli era giunto l’avvertimento di fuggire
immediatamente perché il cerchio si stava stringendo attorno a lui.
Così,
nascosto su di un’ambulanza del suo ospedale, da Vicenza attraverso la
Valdastico era stato portato sino a Folgaria. Da qui, con mezzi di
fortuna era giunto quindi in Val Lagarina. Ma nemmeno a Mori, a casa
sua, poteva sentirsi al sicuro.
Molto probabilmente qualche dispaccio era giunto pure in Trentino, per cui non era prudente rimanere.
Prese,
quindi, la decisione di salire in Val di Gresta dove per un periodo si
nascose nella malga di famiglia, a pochi chilometri da Passo Bordala.
 

Aprile 1945. Gli Alleati risalgono il Lago di Garda.
 
Qui,
talvolta, ospitava partigiani provenienti dalla zona di Riva del Garda,
dove fino al giugno 1944 era stato attivo un forte nucleo di giovani
antifascisti, poi stroncato tragicamente.
Di tanto in tanto veniva
rifornito di viveri, ma poi, giunto l’inverno, era impossibile restare
in malga, circondato da metri di neve. Decise quindi di spostarsi – non
senza pericolo – a Ronzo Chienis, in un piccolo appartamento di sua
proprietà. Nei primi mesi del 1945, tuttavia, Riccardo fu avvertito da
un informatore che il suo covo in paese era stato scoperto.
In tutta
fretta, appena qualche ora prima dell’irruzione dei soldati tedeschi,
lasciò precipitosamente il suo nascondiglio riuscendo a trovare
ospitalità nel paese di Nomesino, grazie all’aiuto del sindaco Beltrami.
Pochi
giorni dopo, con l’avanzata degli Alleati lungo il Lago di Garda,
l’esercito germanico iniziò la ritirata e nell’aprile 1945 finalmente la
guerra ebbe termine. Per Riccardo Grigolli era la fine di un incubo e
il momento di tornare al suo lavoro di medico.
 

Vicenza alla fine della guerra.
 
Così,
anni dopo, scriverà la nipote Margherita nelle sue memorie: «Nel maggio
del ’45, mio zio, con sua sorella Angela e con me, rientrò a Vicenza
per riaprire l’ambulatorio e riprendere il suo posto di primario
all’ospedale.
«In quell’avventuroso viaggio di ritorno portammo con
noi pure la cassa dei Neiger, sperando di trovarli ancora vivi dopo che
le vicissitudini della guerra avevano fatto interrompere ogni contatto
con quella famiglia ebrea che avevamo nascosto l’anno prima in casa
nostra.»
 
All’arrivo, i Grigolli trovarono Vicenza semidistrutta.
Infatti, durante l’ultimo anno di guerra, la città aveva avuto numerose
incursioni aeree da parte degli Alleati subendo ingenti danni e un
elevato numero di vittime tra la popolazione civile.
«Se i Neiger non sono già morti in un campo di concentramento – pensarono – probabilmente saranno morti sotto i bombardamenti.»
Ma non era così. Andarono a cercarli e li trovarono ancora lì, nel convento delle Dame Inglesi, dove erano stati nascosti fino al momento della liberazione.
«Restituimmo
la cassa – racconta Margherita – e in seguito rimase per qualche anno
una certa corrispondenza fra le due famiglie, ma poi con il passare del
tempo, morto Giulio e la moglie, purtroppo perdemmo del tutto i
contatti.»

L’ultimo capitolo di questa lunga storia è di anni più
recenti, esattamente del 2011, quando il dott. Grigolli è morto già da
36 anni. Nel desiderio di fare in modo che quella lontana vicenda legata
alla Shoah non venga inutilmente dimenticata, è ancora la nipote
Margherita, ormai ottantasettenne, a prendere carta e penna e a scrivere
nuovamente.
Stavolta, però, lo fa mandando una lettera al
Commissariato del Governo di Trento e raccontando in essa i fatti che
videro come protagonisti lo zio Riccardo e quella famiglia ebrea che lui
salvò dalla deportazione. L’ufficio non perde tempo e inoltra la
memoria al Centro di Documentazione Ebraica di Milano.
Nel
frattempo Margherita (che morirà nel 2015) è pure riuscita a
rintracciare i figli superstiti di Giulio Neiger e a ottenere da loro
una dichiarazione in cui attestano la veridicità di quanto riportato
nella sua storia. In segno di riconoscenza, gli eredi Neiger offriranno
alla famiglia Grigolli una medaglia in oro alla memoria del Governo
Israeliano.
 
Dopo alcuni mesi, dal Centro di Documentazione Ebraica giunge finalmente la risposta.
Nel
riprendere le tristi vicissitudini della famiglia Neiger e
sottolineando la generosità disinteressata del loro benefattore, la
lettera si conclude così:
«Questa vicenda verrà introdotta nell’archivio del nostro Centro sotto la voce Memoria della Salvezza
e il nome di Riccardo Grigolli sarà per sempre ricordato come luminoso
esempio alle generazioni future a cui stanno a cuore i valori civili di
solidarietà, di pace e di giustizia.»

Maurizio Panizza.



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