Con ‘Femina’, Ginevra si è ripresa la sua storia

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Ginevra potrebbe essere l’artista preferita del tuo amico preferito. Ragazza di fiume cresciuta a Torino, il debutto con Diamanti nel 2022 dopo due EP (Metropoli nel 2020 e Ruins, in inglese, nel 2019), già due volte tangente a quell’ecosistema che si chiama “festival di Sanremo” – una volta come autrice per Noemi, un’altra sul palco dei duetti con La Rappresentante di Lista, Cosmo e Margherita Vicario (la cover era Be My Baby).

Pop senza pensarci troppo, fluviale, romantica. Sì, Ginevra e la sua musica sono state tutte queste cose, finora, e sono state la wild card di chi nei brani vuole un po’ perdersi, un po’ ritrovarsi, ascoltarli quando è triste ma soprattutto felice, di un’euforia impiastricciata di emozioni e quasi senza nome.

Non è fatta per i desideri di seconda mano, Ginevra, né nella vita né sul palco. E ora ha deciso che, va bene la brava ragazza con gli occhi sognanti, ma la storia, dietro, è molto altro. Lo vuole dimostrare con il suo sophomore album, Femina, in uscita domani con Asian Fake dopo i singoli my baby!, cupido e 30 anni. La strategia: comprimere l’abisso tra palco e realtà. Non più persona, dunque, non personaggio, ma una ragazza alla soglia del terzo decennio con una gran voglia di gridare, fare casino e, sì, anche di essere politica. Sempre a suo modo, però. Ponendosi al centro di una costellazione di femine (rigorosamente con una M, poi vi spieghiamo perché) e femminilità: il legame con la nonna, l’amore, le amicizie, la maternità, le insicurezze e la voglia di giustizia in una società che “spoglia con gli occhi e spara” non appena vede una donna.

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Ecco: Ginevra, e il suo equivalente al secolo Ginevra Lubrano, non ci stanno più. E dopo una stagione di club tornano con brani che strizzano l’occhio all’educazione sentimentale dell’artista, tra cameretta, inni pop-rock, corse nei boschi e quella spruzzata di nostalgia tra anni Novanta e Duemila. Lo diciamo? Lo diciamo. Fosse all’estero, ma anche in Italia, Ginevra should be a bigger artist. A lei, però, interessa la musica. Il resto scorre, come l’acqua che ha nel cuore e nelle stelle.

Foto: Giulia Gatti

Il titolo ha una sola M. Come mai?
Perché suona da dio! E poi perché è latino e si lega a un libro della storica britannica Janina Ramirez, che si chiama proprio così. È stata una mia grande ispirazione, è una rilettura della storia del Medioevo attraverso le donne che sono state cancellate. Uno stuolo di protagoniste mai arrivate a noi, mi ha dato una nuova prospettiva. E poi la doppia M l’avrei trovata cringe, Femina è elegante, lo sento affine. La ripetizione avrebbe rischiato un’accezione negativa, si sarebbe legata alla narrazione distorta del femminile che c’è oggi.

Qual è questa narrazione?
Che le donne sono perfette e alla moda, sessualizzate e oggettificate. Lo vediamo sui media di massa e sui social network. Su TikTok però ho notato un nuovo trend, la messy girl. È una contronarrazione normalizzante dell’essere spettinate e imperfette. Così sono io, spettinata. Questo è quello che voglio raccontare, come sono fatta e come vivo la femminilità, non mi interessa rispettare alcun canone. Come donna, sorella, amica, ragazzina e ragazza di fiume ribelle, prima. È bello rivedersi in qualcosa che le persone stanno condividendo online. Anzi, fa strano pensare che non trovo questa stessa comunità nella narrazione musicale e del mercato discografico.

Come vivi l’industria musicale da donna, oggi?
Hai sempre una voce nella testa che ti dice che, come artista e artista donna, devi essere perfetta. Con Femina volevo concedermi di sbagliare e cambiare il mio punto di vista, volevo fare una cosa mia e sono felice del risultato. A Diamanti avevo lavorato con addosso delle sovrastrutture che mi impacciavano anche a livello di scrittura. Qui volevo far parlare il flusso, la musica. Ora vorrei riportare questo atteggiamento anche sul palco. Voglio provare a non subire il giudizio, di me stessa innanzitutto. A raccontare che ci sono anche i giorni no, magari non interessano nemmeno agli ascoltatori, ma ecco, questo disco è per chi vuole sentire cose scomode e non solo la perfezione.

I commenti sui social li leggi?
Purtroppo sì, il tono generale è agghiacciante. È un’esperienza molto strana, spaventosa. Io ho un profilo piccolo e mi sento fortunata perché la mia comunità è benevolente, i commenti sono quasi tutti positivi. Per esempio, la vicenda di Cecilia Sala, giornalista che stimo e di cui apprezzo il lavoro: ho provato a seguire i commenti che giravano sui social, mi si è accapponata la pelle. La quantità di odio che vive online è scioccante. Le persone fanno cadere le barriere, si sentono in diritto di farti sapere tutto quello che pensano.

La tua community si è evoluta nel tempo, è cresciuta con te?
Sì, piano piano. I miei fan sono super carini, ai live a volte mi portano regali davvero teneri, tipo i libri. Uno di questi è stato La profezia della curandera di Hernán Huarache Mamani, l’ho letto ora nell’ultima fase di scrittura per il disco. Altre cose che mi hanno regalato: libri di Virginia Woolf, per esempio, comunque sempre in target perfetto. Sono speciali.

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Ginevra

Foto: Giulia Gatti

Hai sempre detto che ti piace leggere. Cosa tieni sul comodino, ora?
Intermezzo di Sally Rooney, ho letto quelli prima e credo di essere più o meno sua fan. Oddio, forse non sono più in quella fase, forse è una fase. Comunque la sua scrittura mi piace, mi ricorda Fleabag. Ho con me anche un altro libro, una raccolta di poesie di Chandra Candiani. È divisa in stagioni, così ho tenuto l’inverno per questi mesi.

Mi piace che tu mi abbia citato Virginia Woolf. Penso che la tua scrittura a volte sembri una corrispondenza al suo modo, ma anche una lettera mai inviata.
In lei mi ritrovo, è un’autrice che apprezzo molto. Durante la scrittura di Femina stavo leggendo i diari di Sylvia Plath, quindi credo che questo approccio intimista e autobiografico sia passato nella mia scrittura.

Che in Diamanti mi sembrava più pop e “italiana”, mentre Femina vuole essere altro.
Sì. Durante la lavorazione di Diamanti stavo scrivendo molto anche per altri, ed essere autrice mi obbligava a darmi delle strutture, o appunto delle sovrastrutture, intendevo questo prima. Il ritornello che funziona, un certo modo di parlare e usare le frasi… Era la mia quotidianità, si vede in alcuni pezzi che ho scritto per me, per esempio. Va bene, non rinnego quei brani, mi piacciono. Ma riconosco che con Femina ho fatto un lavoro diverso, mi sono staccata da tutto e da tutti, sono ritornata a me anche nella volontà di essere politica. Il brano, Femina, lo è molto. «Qualcuno t’ha detto che esisto per dare piacere». Non ho cercato di edulcorare i miei messaggi. Poi le ispirazioni sono di sicuro internazionali, Big Thief, Mitski, Feist. Ho cercato di scrivere cose diverse. All’estero lo fanno, a volte mi chiedo perché non possa funzionare anche in Italia. Poi non ci penso più e torno a scrivere.

C’è una risposta?
Non lo so, è difficile. Forse è un fatto di educazione alla musica, all’arte, a tutto. Non so come siano messe le nuove generazioni, non so come si approccino alla loro femminilità o identità. A me sono serviti 31 anni per arrivare a raccontarmi così. Spero che tutti gli input del digitale non siano una distrazione. Musicalmente c’è una nicchia che ha il nostro linguaggio e tiene alle nostre cose, forse è un pubblico più curioso e colto ma non in maniera alta, mi riferisco a chi ha voglia di ascoltare un disco senza lo shuffle, dall’inizio alla fine. O che va ai festival apposta per la lineup. Esistono, ma perché non siano il mainstream, non lo so.

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Foto: Giulia Gatti

Mi sembra che una risposta di sorta sia l’attacco del disco, che parte con my baby!. Metti subito in chiaro che c’è una Ginevra nuova.
La tracklist è sempre delicata per me, la lascio come ultima cosa. Bisogna armonizzare la mia visione con le giuste necessità dell’etichetta. Quella presente, che si apre con my baby!, è sicuramente pensata per una fruizione digitale, in realtà non avrei voluto quello come primo brano, temo che possa dare un’impressione sbagliata sul resto dell’album. Però è una scelta che funziona, una bella rottura dalla dimensione più pop ed eterea che era Diamanti.

Per Femina hai scelto anche un’immagine diversa. Come ti vedremo sul palco?
Sarà tutto più naturale, tutto più me. Sono stata molto dentro l’estetica di Diamanti, ma la verità è che non sono quella che esce con il capello gellato, mi metto i jeans e la maglietta, un libro in borsa e vado a un baretto. Ho definitivamente rotto la barriera tra Ginevra artista e Ginevra persona e lo voglio fare anche sul palco. Ero stanca di mettere l’artista su un piedistallo, volevo che mi assomigliasse di più. È bellissimo ma rischioso, ti espone, non hai la protezione, lo scudo. Poi tante immagini legate a Femina sono in bianco e nero ma per scelta artistica di Giulia Gatti, la fotografa con cui ho lavorato.

Ginevra

Foto: Giulia Gatti

Hai scelto un team interamente femminile, a parte i produttori con cui collabori da tempo. C’è stato uno sguardo diverso?
Venivo da una collaborazione con Tommaso Ottomano, che è un amico e un artista gigante. Sono stata contentissima di lavorare con lui, a livello artistico mi ha lasciato tanto. Ora però voleva qualcosa che rappresentasse la mia visione, prima mi ero soprattutto affidata, con gioia, però affidata. Ho fatto lo shooting con le mie amiche, abbiamo passato una giornata insieme nei boschi, è stato fantastico. Ed è stato l’unico modo possibile. Abbiamo vissuto uno scambio artistico ma anche di bellezza umana, appena finito volevo rifarlo.

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Un’altra donna importante, oltre a Giulia, alla regista Silvia Violante Rouge e Aurora Rossa Manni per l’art direction, è stata la ballerina Maria Carpaneto, che abbiamo coinvolto per il video di Femina. Abbiamo costruito una narrazione molto fisica, incentrata sulla danza e il movimento, che hanno fatto parte di me per tanto tempo. Volevo rimettermi in gioco anche su quel fronte. E il fatto che Maria sia più matura e saggia di me ci ha permesso di sottolineare uno dei messaggi del brano, ciò che si tramanda di generazione in generazione.

Questa cosa del tramandare, del ricevere, del ritrovare qualcosa che avevi perso… Sono messaggi che tornano nei testi del disco.
Sono temi che mi sono stati cari in questi ultimi anni, e ogni disco, per me, nasce dal momento che sto vivendo. In Femina però è successa una cosa che non mi aspettavo: non sono madre, spero di esserlo un giorno, ma scrivendo il testo mi è venuto da parlare di maternità. «Un giorno dal mio corpo nascerà una femina», che sarebbe appunto l’eredità di un’altra femina quando anche tentano di schiacciarla. Non so come mi sia uscita, ma è stato potente.

In Metropoli invece, brano di qualche anno fa, cantavi: «Ci mancano le madri ma non lo possiamo dire». Che effetto fa questa frase, oggi?
Ho riletto tanto quei testi mentre scrivevo Femina. Ora direi: diciamolo, che ci mancano, che stare lontano da casa fa male, che vivere è un bordello. Non nascondiamoci. C’è un’altra parte del brano in cui dico che soffrire d’ansia è un difetto. Ora non lo credo più, non è più la mia narrazione.

Lo fai sentire anche attraverso la voce, in Femina esce in modo diverso.
Ho scelto di farla più sporca, più vera e diretta, meno autotune e meno “avanguardia”. Non mi interessava uscire con il lavoro perfetto, ben impacchettato. Nella vita sono sia precisa che spontanea, avevo bisogno che lo fossero anche questi brani: le cose stanno così, io mi sento così. Avevo così tante cose da dire, le volevo dire così forte. Ho lavorato in prima persona alle voci, le ho registrate tutte io. E proprio quando avrei dovuto farlo ho sofferto di un problema alle corde vocali che mi ha obbligato a rimanere ferma. Non ci credevo, era paradossale. A mio modo grido, dentro Femina. Però sono del segno del Cancro, non sbrocco mai in pubblico. Anche questo è vivermi fino in fondo.

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La cover di ‘Femina’. Foto: press

Ti senti un’outsider?
Credo di sì, da sempre. Forse mi piace, anche perché appunto le mie reference musicali vengono da fuori. Mi dicono sempre che “sarei la prossima a dover esplodere”. Preferisco non pensarci, le cose arrivano se devono arrivare.

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C’è questa frase che ritorna, no? “Fare il salto”.
Il desiderio c’è, è inevitabile, anche se arrivi al punto in cui non sai mai se è perché te lo inculcano oppure se è qualcosa di genuino. La vivo a momenti alterni, vero è che sembra una parte obbligata del percorso. Ci abbiamo anche provato a rientrare in quei canoni, ma anche lì, arriva prima il pezzo o Sanremo? Di questi ragionamenti, per questo disco, non ne avevo necessità. Mi sento di tradire costantemente la musica, e portarla in quella direzione sarebbe stata tradirla. La musica è sacra, la pressione mediatica di una situazione diversa mi spaventa. Ti dico la verità, a un certo punto ho pensato: cazzo, ma Femina, il brano, aveva il tema perfetto. Continuo il mio percorso, poi si vedrà.

Quindi, Sanremo?
Lo guarderò di sfuggita, non mi ci sono soffermata. Sono molto contenta per Lucio (Corsi, nda) e Joan (Thiele, nda), che sono amici e artisti che stimo.

Femina, però l’unico feat che c’è è con un maschio, Colombre.
Ho pensato molto a questa cosa. Sono molto solitaria con la mia musica, nel senso che parto sempre da me e che è un processo intimo, non che non mi piaccia collaborare con artisti che stimo, anzi. Il brano con Colombre avrebbe dovuto essere in Diamanti insieme a my baby!, ma ci siamo accorti che erano già nati con una produzione diversa, in quel disco sarebbero stati fuori posto. Sono contenta di averli salvati per dopo e del duetto con Giovanni, penso che la sua voce sia perfetta per Femina. In realtà, oltre al team dietro le quinte, possono dire che ci sono e ci saranno delle donne, una anche molto importante, in questo nuovo disco. Solo che non posso rivelare nient’altro, per ora.





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