Politiche energetiche Donald Trump: aspettative e conseguenze

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L’insediamento di Donald Trump segna (nuovamente, dopo l’esperienza del 2016-2020) una svolta netta nelle politiche energetiche e climatiche degli Stati Uniti, che durante la presidenza Biden avevano visto l’approvazione dell’Inflation Reduction Act e di una serie di provvedimenti volti a incentivare la transizione energetica, anche a scapito della “sostenibilità economica planetaria”.

Il ritorno di Trump alla Casa Bianca riapre interrogativi profondi: quali sono le aspettative dei cittadini americani, che lo hanno riportato al potere? Cosa ci si deve aspettare ora? Quali saranno le ripercussioni delle sue decisioni? E soprattutto, almeno da questo angolo visuale, come è possibile che, nonostante l’evidenza degli eventi climatici estremi sempre più frequenti, gli americani abbiano scelto di tornare sui loro passi?

L’eredità dell’Inflation Reduction Act e le sue implicazioni economiche

L’Inflation Reduction Act (IRA), varato dall’amministrazione Biden, ha rappresentato il più grande investimento statunitense nella transizione energetica e nella lotta al cambiamento climatico: attraverso incentivi alle energie rinnovabili, al settore dell’auto elettrica e all’efficienza energetica, la legge ha permesso agli USA di avviare una riconversione industriale e di attirare enormi investimenti nel settore delle tecnologie verdi, con conseguenze positive sulla sostenibilità ambientale di lungo periodo, ma con ripercussioni non altrettanto vantaggiose per la sostenibilità economica (e, quindi, sociale) anche di breve periodo a livello mondiale.

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L’IRA ha avuto forti ripercussioni anche sul piano economico, e non solo per gli Stati Uniti.

Alcune delle misure introdotte hanno infatti un carattere marcatamente protezionistico, mirato a favorire la produzione e gli investimenti interni: tutto questo ha generato preoccupazioni in Europa, dove si teme un effetto di spiazzamento per le imprese locali, attratte dai generosi incentivi americani. La politica del “Buy American” promossa dall’IRA, infatti, potrebbe spingere alcune aziende europee a delocalizzare negli Stati Uniti, mettendo a rischio la competitività industriale europea.

In questa sede, tuttavia, ben consci della complessità dei temi affrontati dall’IRA, come sottolineato dal Libro guida della Casa Bianca, pubblicato in “Epoca Biden”, vogliamo concentrarci sugli aspetti ambientali, con un focus su quelli energetici, alla luce dell’elezione di Donald Trump, 47° Presidente U.S.A., che ha dichiarato in tutti i modi la sua contrarietà alle politiche ambientali (tout court).

Cosa aspettarci dalle “scelte” in materia di politiche energetiche (al momento sono solo dichiarazioni) di Donald Trump, caratterizzate dall’espansione della produzione di combustibili fossili, dall’uscita dagli accordi internazionali sul clima, dalla riduzione dei sussidi per le energie rinnovabili, dalla rimozione delle restrizioni sulle trivellazioni in terre e acque federali, dall’accelerazione dei permessi per progetti di gas naturale liquefatto e, in generale, dal riguardo verso una politica “old (party) style”, edonistica e lontana mille e mille miglia dai concetti di sostenibilità?

Il clima che si ribella: incendi in inverno e catastrofi sempre più frequenti

Non si può non partire dal clima nel quale si sono svolte le elezioni (non il clima politico, ma il contesto climatico planetario), e da una domanda.

Mentre Trump si insedia nuovamente alla Casa Bianca, infatti, la California è alle prese con le conseguenze dei devastanti incendi – in pieno inverno – che hanno distrutto un pezzo della West Coast: quella ricca e, almeno in teoria, più capace di far fronte a disastri (annunciati) come questo.
Una cosa fino a poco tempo fa impensabile.

Ondate di calore fuori stagione, tempeste sempre più violente e siccità persistenti stanno diventando la norma, confermando quanto il cambiamento climatico stia accelerando.
Eppure, nonostante questi segnali evidenti, il voto popolare ha premiato un presidente che nega la crisi climatica e promuove politiche che ne peggioreranno gli effetti.

Di fronte a queste evidenze, ci si potrebbe aspettare un cambiamento nella coscienza collettiva, e invece, si è verificato l’opposto.
Perché? Quali sono le cause profonde di questa apparente cecità collettiva?

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Cultura, complessità delle scelte politiche e il rischio dell’immobilismo

Uno dei grandi interrogativi di questa nuova era Trump riguarda il rapporto tra politica e cultura.
La politica – una certa politica – fa leva sull’incapacità di comprendere, e quindi accettare, la complessità: la mancanza di una cultura ecologica diffusa, alimentata da un’informazione polarizzata e da interessi economici radicati, ha reso possibile una narrazione secondo cui la transizione energetica è una minaccia anziché un’opportunità.

E così, in questa narrazione, la paura della perdita di posti di lavoro, la generale sfiducia nelle istituzioni (e, paradossalmente, la fiducia nell’uomo forte, che senza lacci e lacciuoli è in grado di “Make America Great Again”) e l’idea che la tutela ambientale sia un lusso per élite progressiste hanno creato terreno fertile per una politica basata sulla retorica del “drill, baby, drill”, che promette benessere economico attraverso lo sfruttamento intensivo delle risorse fossili.

La complessità, si diceva: uno dei grandi problemi legati alla transizione ecologica ed energetica è la complessità delle misure adottate per realizzarla.
La sostenibilità non è solo una questione ambientale, ma anche economica e politica. Tuttavia, negli ultimi anni le strategie elaborate si sono spesso rivelate troppo articolate, difficili da comprendere e ancora più difficili da attuare in tempi brevi.

La transizione è stata presentata come un obiettivo immediato, spesso sottovalutando la necessità di una pianificazione graduale e realistica. Questo ha generato frustrazione e resistenze, favorendo il successo di chi propone soluzioni semplicistiche, anche se errate.

L’illusione del “tutto e subito” ha reso difficile l’accettazione di un processo che, per sua natura, richiede tempo e adattamenti progressivi. In questo contesto, il divario tra aspettative e realtà diventa terreno fertile per la propaganda politica più radicale. Chi usa un linguaggio chiaro e diretto – anche quando propone soluzioni inefficaci o negazioniste – risulta più persuasivo rispetto a chi, per spiegare le politiche ambientali, utilizza termini tecnici e articolati.

Quali sono le scelte di Donald Trump (“Drill, baby, drill”) in tema di politiche energetiche e gli scenari che si aprono

Ecco una rapida carrellata delle dichiarazioni di Donald Trump in tema di politiche energetiche, e del loro probabile impatto.

Trump ha, innanzitutto, promesso di ostacolare con ogni mezzo (solo burocratico?) l’espansione delle energie rinnovabili: il rallentamento e le incertezze regolatorie potrebbero scoraggiare gli investitori nelle energie rinnovabili e rallentare la transizione verso una rete elettrica più sostenibile.

E i veicoli elettrici? Trump ha criticato le politiche di incentivazione dei veicoli elettrici, e potrebbe eliminare i crediti d’imposta per l’acquisto di auto elettriche. Potrebbe, perché Elon Musk (proprietario di Tesla…) e altri attori dell’industria potrebbero fare pressione per mantenere parte degli incentivi, senza i quali il mercato delle auto elettriche negli USA potrebbe rallentare, favorendo invece il mercato cinese, che continua a investire nella mobilità elettrica.

Logica conseguenza, la volontà del 47° Presidente USA di aumentare la produzione petrolifera e di gas naturale, eliminando vincoli ambientali e ampliando le concessioni per trivellazioni offshore e su terreni federali, e a prescindere da considerazioni riguardanti la sostenibilità economica. Le aziende petrolifere potrebbero essere riluttanti a fare investimenti a lungo termine in un contesto di incertezza sulla domanda globale.

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Analogo discorso per quanto riguarda il Gas naturale liquefatto (GNL): Donald Trump ha promesso di accelerare l’autorizzazione dei progetti di esportazione di GNL, ponendo fine alle restrizioni imposte dall’amministrazione Biden, per rafforzare la posizione degli USA come fornitore energetico globale, senza tener conto che la concorrenza con il gas a basso impatto climatico europeo e asiatico potrebbe limitarne il successo.

Lato accordi internazionali, Trump ha già dichiarato di voler ritirare (nuovamente…) gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi e sta subendo pressioni per abbandonare anche la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici: la governance climatica globale ne uscirebbe indebolita, e il disimpegno degli Stati Uniti potrebbe spingere altri Paesi a ridurre i loro impegni climatici, minando gli sforzi globali per limitare il riscaldamento.

Le politiche energetiche di Donald Trump: ovvie conseguenze e meno ovvie speranze riposte

Minimo comun denominatore delle scelte (o delle promesse) di Trump è il totale disprezzo per le istanze climatiche: istanze che, lungi dal poter essere ideologiche ed integraliste (perché devono fare i conti con la realtà), devono comunque essere prese in considerazione, per guidare la necessaria transizione verso un mondo nel quale ci sia equilibrio fra gli aspetti, quanto meno, ambientali, economici e sociali.
Le dichiarazioni, se seguite dai fatti, sicuramente avranno un impatto negativo sull’ambiente, che già tanto bene non sta.

Le dichiarazioni, comunque, in quanto tali, si commentano da sole.
Così come si commentano da soli gli auspici di chi – come unica possibilità di fermare questo ulteriore scempio ambientale – intravede la soluzione (o affida il potere?) nel mercato, nella finanza internazionale, nel settore delle assicurazioni.

È il paradosso della nostra epoca: non potendo (o anche non volendo?) contare su una cultura diffusa della sostenibilità, e avendo delegato le scelte a uomini forti e leader populisti, siamo costretti a sperare che a limitare i danni siano il mercato, le assicurazioni e la finanza, attori che non agiscono per spirito ambientalista, ma per puro interesse economico.

Se la transizione energetica sarà conveniente, verrà portata avanti. Se diventerà più costoso ignorare il cambiamento climatico che contrastarlo, allora le misure di mitigazione saranno adottate.

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La scommessa e la Realpolitik

Ma questa non è una strategia, è una scommessa: un rischio, non un’opportunità.
Il rischio di affidare il destino del Pianeta a dinamiche di profitto che possono cambiare da un momento all’altro: il mercato (e la finanza, e il settore assicurativo) può essere un alleato, ma non può essere l’unico pilastro su cui si costruisce una risposta alla crisi climatica.

Il rischio, nel tentativo di semplificare il dibattito, di perdere di vista l’urgenza di un’azione concreta e coerente. Senza una narrazione chiara della complessità, e senza obiettivi realistici, sostenibilità rischia di restare un sogno irraggiungibile, facile da demolire da chi ha interesse a mantenere lo status quo.

Se il futuro del Pianeta dipende dalle leggi di mercato più che dalle scelte politiche, allora la vera domanda da porsi è: fino a quando potremo permettercelo?
La Politica deve recuperare il proprio ruolo di guida, creando un equilibrio tra necessità economiche e obiettivi ambientali senza cedere all’illusione che la sostenibilità possa essere solo una conseguenza delle dinamiche di mercato.
Si chiama Realpoliltik.



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