di Valerio Cappelli
L’attore e regista: «Ero un poliziotto, sognavo il teatro di Pirandello
Wertmüller tra i miei maestri, mi prendeva a calci».
Per Michele Placido, Luigi Pirandello è la chiusura di un cerchio, anzitutto emotivo. È l’autore che lo accompagna da sempre. «L’uomo dal fiore in bocca l’ho interpretato più di 500 volte
». Ora ne assembla il monologo, come regista, drammaturgo e in scena con Valentina Bartolo, unendolo alla corrispondenza con Marta Abba e La carriola. Accade in Pirandello. Trilogia di un visionario al debutto il 31 a Ferrara e poi in tournée. «Ho lo stesso senso di riconoscenza che ebbi per La Piovra, la fiction più vista. Per me questo è un ritorno alle origini».
Perché?
«Pirandello è stato l’inizio della mia carriera. Ero poliziotto e alla biblioteca della caserma preparai proprio il monologo de L’uomo dal fiore in bocca. Ero sospettato di non fare gruppo con gli altri poliziotti, ragazzi pasoliniani che puzzavano di minestroni del Sud, ma il colonnello era innamorato del teatro, sapeva a memoria quel monologo, mi aiutò a impostare la voce e a portarlo all’esame di ammissione all’Accademia Silvio d’Amico. Su quel monologo feci un piccolo spettacolo in Puglia, volevo farlo vedere a mio padre ma venne a mancare ed è il mio cruccio. Al mio paese, Ascoli Satriano, non sapevano nemmeno cos’è il teatro, mi prendevano in giro, dicevo Essere o non essere e mi gridavano ma ‘ndo vai. Pirandello divenne il mio Vangelo, il mio padre putativo. L’ho sempre tenuto con me».
Su di lui ha girato «Eterno visionario»: perché lo è?
«Perché è un classico che si fa carico delle pene degli uomini, parla di noi, della condizione esistenziale in ogni sfaccettatura. La carriola è un monologo surreale di 24 minuti che mi aprì gli occhi sulla libertà, fare ciò che ci piace. Me lo consigliò Sciascia. Volevo fargli leggere la sceneggiatura di Mery per sempre e chiesi di incontrarlo. Mi fece dono delle novelle».
Lei ama il teatro.
«Mario Cecchi Gori mi fece causa e dovetti pagare una penale per aver rinunciato a un film con Johnny Dorelli e Monica Vitti. Preferii recitare Le baccanti a Siracusa. Ho sempre seguito il mio istinto. In Accademia ero ritenuto inaffidabile avendo occupato la scuola per seguire quel gigante di Volonté. Fischiai I giganti della montagna di Pirandello, ritenendolo una rottura di scatole, messo in scena da Strehler, che poi divenne il mio maestro. Era il ’68, ed era tutto da contestare. Strehler aveva saputo della mia protesta. Più tardi mi prese come protagonista de La Tempesta, il provino lo fecero tutti gli attori della mia generazione. Giorgio mi stimava molto. Mi offrì l’Amleto ma non potei. Mi chiamava lo zingaro per la vita che conducevo».
Oggi a teatro regna il conformismo.
«Si fischia solo all’opera. Per carità, abbiamo grandi registi e attori. Ma si apprezzano soprattutto le proposte di chi viene dalla tv. Meteore. E a teatro vanno quasi solo persone anziane. I giovani vedono le serie sul pc. Serve un ricambio generazionale. Sto provando a Roma il mio spettacolo al teatro dell’università, ho dato accesso agli studenti del Dams: mi stanno regalando emozioni incredibili».
Ha avuto grandi maestri.
«Strehler, Patroni Griffi, Luca Ronconi e Lina Wertmüller che alle prove di Wesker mi prendeva a calci, mi sbatteva contro il muro, mi gridava che ero un attore dormiente. Grande scuola».
Se in sala squilla un cellulare, come reagisce?
«Accade anche in chiesa e il parroco non reagisce. Carmelo Bene faceva un avviso con la sua voce metallica: se ci fosse stato un qualsiasi rumore avrebbe interrotto lo spettacolo e chiesto i danni. Bisogna trovare la via di mezzo. Allo squillo insistente di una signora dissi: quello seduto accanto sarà suo marito. Feci allusioni all’amante. Il pubblico applaudì».
A teatro si sente mai come un sopravvissuto?
«No, io ci credo ancora. A 78 anni ho ancora voglia di combattere, di cercare di cambiare le cose. Dovremmo ripetere la rivoluzione di Vittorio Gassman e del suo teatro popolare, cercando di abbassare i prezzi. I tendoni nelle periferie. Nei miei due anni a Tor Bella Monaca, fuori dal teatro era pieno di ragazzi drogati che ci schernivano. Dissi loro: voi non avete un bar dove bere una birra. Ve ne costruiremo uno. Poi restate a vedere lo spettacolo. Il teatro ha una funzione sociale, non è retorica».
Si deve ritrovare l’utopia?
«Sì. Penso all’Orlando Furioso di Ronconi a Spoleto con le carriole meccaniche tra il pubblico, senza platea. Bisogna ritrovare quelle cose lì, e le prove a tavolino, come feci io per Romanzo Criminale. Ma gli attori quando hanno successo dimenticano tutto. Di quel cast, Kim Rossi Stuart e Riccardo Scamarcio mi sono rimasti affezionati, Claudio Santamaria disse che sbagliava a fare a modo suo, Pierfrancesco Favino non l’ho più sentito e mi spiace. Questo è un mestiere che si fa insieme.
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