Quando si parla di “costituzione” difficilmente si ha in mente la storia dell’idea e della tradizione – ma anche della prassi – da cui essa deriva. Questo accade anche per un motivo ideologico: a molti non conviene, o forse non interessa neanche, ricordare che la tradizione del costituzionalismo nasce come difesa degli individui dal potere arbitrario. Al contrario, una costituzione viene vista come strumento progressivo di ampliamenti di sempre nuovi diritti. Il che significa, poi, ampliamento del perimetro dello Stato e, di conseguenza, erosione dei margini di libertà individuale. Esattamente il contrario del suo proposito originario. Ne parla in un volume appena uscito per Liberilibri Eugenio Capozzi, ordinario di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli: Libertà o potere. Ascesa e declino delle costituzioni. Lo abbiamo sentito per Tempi.
Prof. Capozzi, il titolo scelto per il libro è assai ficcante. Dall’idea che la costituzione fosse il baluardo contro l’ingerenza del potere arbitrario, e la sua espansione, siamo passati a qualcosa di molto diverso. Questo origina forse anche dalla confusione mai sopita tra libertà e potere?
La dialettica tra libertà e potere emerge in una fase molto precoce nella storia della civiltà occidentale. Da quando, nella cultura greca e romana, si definiscono l’idea di uomo come essere razionale e quella di politica come spazio per eccellenza dell’interazione umana, si pone il problema di “domare” il potere attraverso norme e istituzioni. L’incontro con la cultura ebraica e il cristianesimo radicano l’idea che ogni potere umano deve essere limitato. La rete di diritto e istituzioni consuetudinarie che si forma nell’Europa medioevale, e soprattutto in Inghilterra, traduce in prassi questo presupposto. È la frattura della modernità a cambiare segno all’idea di costituzione, con la nascita dello Stato e la teoria della sovranità assoluta. Il Leviatano pretende di plasmare la società. Aprendo la strada alle ideologie, religioni secolari, che dalla Rivoluzione francese in poi pretendono di subordinare ogni norma a un potere investito del compito di portare il paradiso in terra.
Il vero nemico del costituzionalismo, scrive nel libro, è dato dallo Stato. Una realtà, quest’ultimo, che nasce in epoca moderna e che si caratterizza, contrariamente all’estrema frammentazione e dispersione del potere politico medievale, per la sua tendenza all’accentramento e alla verticalità.
La promessa dello Stato moderno è quella di debellare il caos generato dal venir meno dell’ordinamento medievale, il bellum omnium contra omnes, assicurando l’ordine e la pace attraverso il monopolio della forza. Esso afferma la priorità del potere sul diritto, pretendendo che il potere, in uno spazio politico secolarizzato, assurga a una dimensione religiosa, diventi oggetto di culto. A partire da questo snodo, cerca poi di imporre l’idea che il diritto stesso deriva dal potere, che auctoiritas facit legem. Idea che prevale dopo il 1789 e con l’avvento delle ideologie. Quindi è radicalmente sbagliato affermare che il costituzionalismo è un prodotto dello Stato moderno. Esisteva, invece, precedentemente come sedimentazione di filosofia, cultura, diritto e istituzioni. Lo Stato moderno minaccia di distruggerlo. Quindi esso deve reinventarsi come resistenza al potere assoluto (e poi alle ideologie) attraverso le costituzioni scritte e le dichiarazioni universalistiche dei diritti.
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Un punto su cui molto insiste è dato dal respiro etico-politico del costituzionalismo. Non si può infatti dimenticare, benché venga in realtà sistematicamente occultato, come affondi le sue radici nella tradizione greca, romana, ebraica e poi cristiana. Al suo centro troviamo un’idea di uomo, della sua dignità e della sua libertà che stiamo perdendo o che, volendo essere un po’ pessimisti, abbiamo già smarrito.
Una delle conseguenze della svolta storica attraverso la quale nella civiltà europea si è preteso di subordinare il diritto allo Stato, e poi alle ideologie che tentano di impadronirsene, è la riduzione positivistica della costituzione a legge, a documento valido in quanto emanato da un potere sovrano, e del costituzionalismo a scienza che si limita a studiare, con approccio positivistico, il diritto costituzionale. Ma il costituzionalismo è, prima di tutto, una questione di principi filosofici, religiosi, morali. È una cultura maturata nella storia di quella civiltà, a partire dai suoi presupposti costitutivi, che ha come principio fondamentale la limitazione strutturale di qualsiasi potere in nome della priorità della dignità, e quindi della libertà, umana, per mezzo del diritto.
Nella parte finale del libro lei parla dei nuovi pericoli che corre il costituzionalismo. Quali sono?
Lo statalismo e le ideologie che hanno soffocato la cultura della libertà tra la fine del Settecento e il Novecento sono crollati rovinosamente alla fine del secolo scorso, vittime degli effetti distruttivi provocati dai loro deliri di onnipotenza. Ma a questo crollo non ha corrisposto una rinascita del costituzionalismo liberale. Anzi, da allora assistiamo in Occidente a una crescita delle tendenze dirigiste e pedagogiche dei poteri statuali o sovra-statuali. Ciò perché la secolarizzazione radicale e il relativismo dominanti hanno snaturato del tutto la cultura dei diritti soggettivi. Dall’universalismo dei diritti naturali si è passati alla identity politics, che vede i diritti come prerogativa corporativa di gruppi, risarcimento a vere o presunte discriminazioni ai loro danni, e predica continue mobilitazioni emergenziali. Ne deriva un nuovo autoritarismo, quello woke, che soffoca ogni libertà di pensiero, come ogni effettiva uguaglianza giuridica e civile.
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