Lo Stato deve 1 miliardo: respinto il primo ricorso sul canone del 1998

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Lo Stato dovrà pagare 1 miliardo a Tim. La Corte di Appello di Roma ha respinto la richiesta avanzata dalla presidenza del Consiglio di sospendere il pagamento da circa 1 miliardo dovuto a Tim per la vicenda della restituzione del canone del 1998.

La Corte d’Appello di Roma, seconda sezione specializzata in materia d’impresa, ha rigettato il ricorso dell’Avvocatura di Stato che chiedeva la sospensiva della sentenza della Corte d’Appello di Roma 2320/2024 che aveva condannato la Presidenza del Consiglio a pagare a Telecom Italia la somma di 528.711.476,152 euro oltre a rivalutazione e interessi sulla somma anno per anno rivalutata dalla data del deposito al Tar (27/03/2003) – fino alla data di deposito della sentenza (3/4/2024), oltre alle spese.

La Corte presieduta da Benedetta Thellung de Courtelary con i consiglieri Marina Tucci e Mario Montanaro, in data 20 gennaio, ha sostenuto che “deve escludersi che la società resistente (Telecom, ndr) risulti non dotata della sufficiente solidità finanziaria, a garanzia della restituzione della somma in caso di accoglimento del ricorso in Cassazione proposto dalla parte ricorrente (l’Avvocatura di Stato, ndr), non sussistendo neppure i presupposti per l’imposizione di una cauzione”. E per questi motivi ha rigettato il ricorso.

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La sentenza è provvisoriamente esecutiva: la parola finale spetta alla Cassazione a seguito del ricorso presentato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri

Il caso

La Corte aveva rinviato all’udienza del 20 gennaio scorso con un invito alle parti di ricercare un accordo transattivo che non è stato raggiunto entro questa scadenza. La stessa Corte d’Appello aveva precedentemente condannato la presidenza del Consiglio a pagare a Telecom la somma di 528.711.476,152 euro che, considerata la rivalutazione e gli interessi, è risultata pari a 995.250.242,87. Va inoltre considerato che, per ogni anno di ritardo nel pagamento della suddetta somma dalla data del 3 aprile 2024, quando è stata pubblicata la sentenza della Corte, si producono inoltre interessi pari ad 24.879.935,93 euro.

Tim è stata rappresentata dai legali Romano Vaccarella, Mario Siragusa e Stefano D’Ercole.

Il ricorso dello Stato

Lo Stato, peraltro, ha fatto ricorso in Cassazione contro la decisione della Corte di Appello di condanna a risarcire Tim del 2024. All’udienza del 16 dicembre scorso, inoltre, secondo quanto si legge nella decisione della Corte sulla richiesta di sospensione, Romano Vaccarella, legale di Tim, ha rappresentato che la proposta della società, di uno sconto di 150 milioni di euro con pagamento rateizzato, non ha avuto riscontro dalla parte ricorrente, ovvero la presidenza del Consiglio.

Lo Stato ha fondato il ricorso “sull’assunto che la dimensione della somma portata dalla sentenza rende evidente l’impossibilità per il bilancio dello Stato di reperire la liquidità necessaria a un ipotetico pagamento integrale ed immediato, rendendosi necessario, a questo fine, inevitabilmente apportare modifiche alle previsioni di cassa stabilite dalla vigente legge di bilancio n. 213/2023 attraverso uno specifico intervento legislativo. Segue l’esposizione della legge di bilancio per il 2024. Osserva la parte ricorrente che ‘su una complessiva manovra di spesa di 28 miliardi di euro, l’importo di condanna pari ad oltre 783 milioni incide per il 2,8%’ e conclude sul punto assumendo che ‘il pregiudizio per il bilancio dello Stato e più in generale per gli interessi di rilevanza costituzionale tutelati dalle previsioni della legge di bilancio, supererebbe per gravità ogni ipotetico beneficio derivante al creditore dall’incasso certamente precario di una somma fortemente contestata e soggetta al giudizio della Corte di Cassazione sotto tutti gli articolati profili rilevati dai motivi di impugnazione’”.

Le osservazioni del collegio dei giudici

Il collegio dei giudici osserva quindi che “quanto al riportato motivo che, ferma l’estraneità al presente giudizio di ogni valutazione sulla fondatezza del ricorso in Cassazione, il dedotto pregiudizio grave e irreparabile derivante da ‘un ipotetico pagamento integrale ed immediato’ non è, evidentemente, ritenuto tale neppure dalla stessa parte ricorrente, che infatti non ha neppure riscontrato l’offerta della resistente di uno sconto di 150 milioni con pagamento rateizzato, come riferito dalla difesa di Telecom Italia nel corso dell’udienza camerale del 20 gennaio 2025 senza smentita da parte della Difesa erariale”.

Inoltre “la previsione di spesa per l’anno 2024 illustrata dalla parte ricorrente nulla dice sulla incapacità patrimoniale della Presidenza del Consiglio dei ministri. Incapacità patrimoniale che non è prospettata, e neppure è plausibilmente prospettabile, pur a fronte dell’ingente somma oggetto della condanna”.

In chiusura, “quanto alla comparazione tra il pregiudizio per il bilancio dello Stato e il beneficio per la società creditrice dall’incasso della somma oggetto della condanna, si osserva che la parte ricorrente non considera evidentemente l’aggravio per soli interessi derivante alle casse dello Stato dal ritardo nel pagamento della somma oggetto della condanna, aggravio di cui si è già esposta l’entità per ogni anno di ritardo. La parte ricorrente ha poi prospettato il pericolo di un pregiudizio grave e irreparabile sotto il profilo dell’assenza di certezza della restituzione della somma da parte della resistente, in caso di accoglimento del ricorso proposto in Cassazione. A tal fine ha illustrato la situazione patrimoniale-finanziaria tratta dalla ‘Informativa finanziaria al 31.3.2024’ da cui risulterebbe ‘complessivamente il dato di una società costantemente in perdita, con evidenti difficoltà di parte corrente, scarsa liquidità e indebitamento crescente e largamente superiore al patrimonio’”.

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Tim, dal canto suo, ha contestato che “l’Informativa finanziaria al 31.3.2024′ richiamata dalla parte ricorrente rispecchi l’attuale situazione patrimoniale finanziaria” della società e” ha illustrato la più recente Informativa finanziaria al 30 settembre 2024 e comunicato al mercato, da cui emerge la liquidità sufficiente a far fronte a tutti i propri obblighi di pagamento”.

In conclusione per la Corte “deve escludersi che la società resistente risulti non dotata della sufficiente solidità finanziaria, a garanzia della restituzione della somma in caso di accoglimento del ricorso in Cassazione proposto dalla parte ricorrente, non sussistendo neppure i presupposti per l’imposizione di una cauzione”.



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