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Per un’astuzia della storia, mercoledì 22 gennaio, a Roma, nella sede di questa testata, ci ritroviamo a discutere con Riccardo Bellofiore di Claudio Napoleoni, una delle poche bussole che permettono di misurarci con pessimismo della ragione – ma anche con rinnovato ottimismo della volontà – con il mondo di Trump. Napoleoni, il grande economista della sinistra, scomparso ormai quasi quarant’anni fa, ci aveva fornito pensieri che, già nel cuore della prima deriva del fordismo, potevano orientare una sinistra non subalterna. Oggi il nodo è capire come rielaborare una nuova teoria del lavoro, che sottragga i produttori al ricatto della tecno-destra trumpiana.
Lo sfruttamento del lavoro vivo sarà una ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza – scriveva Marx nel suo celeberrimo frammento sulle macchine. Per Trump, invece, proprio lo sfruttamento del lavoro vivo è stata la base del successo elettorale, ed è diventato interlocutore del suo programma un neolaburismo corporativo. Sembra questa, al netto delle innumerevoli considerazioni sui toni e sulla brutalità del suo discorso d’insediamento, la chiave per interpretare le linee di fondo della seconda presidenza. Al centro del suo progetto di ingegneria sociale, ci sono la tutela e lo sviluppo del lavoro americano, un lavoro da intendersi come il concentrato di tutte le rendite di posizione dell’economia statunitense, che, con il pretesto di sostenere il ceto medio-basso bianco, duramente penalizzato dalla globalizzazione liberista, ripropone la vecchia agenda petrolifera e protezionistica. Con buona pace dei Silicon boys, calati in massa dalla Silicon Valley nella capitale, con i loro vestitini nuovi e tanto di cravattine, come novelli re Magi per l’adorazione del bambinello.
La ricetta che li ha accolti – salvo l’allucinazione dei prossimi viaggi su Marte – è quella di un secco ridimensionamento di ogni metaverso: l’economia si fa con petrolio e lavoro manifatturiero, ha declamato il presidente voluto da Dio. Il filo rosso che lega tutte le condizioni di guerra elencate da Trump, davanti ai suoi estasiati sostenitori, ha come effetto l’intensificazione della quota di lavoro manifatturiero nei confini nazionali: la cancellazione dei vincoli ambientali, il ritorno ai combustibili fossili, il richiamo alle aziende americane che hanno decentrato fabbriche all’estero, i dazi che proteggeranno le merci interne, le boutades su Panama e quelle sul Canada e la Groenlandia, persino l’esibita dichiarazione contro ogni confusione di genere, hanno come interlocutore e beneficiario una forza-lavoro falcidiata dall’outsourcing e soprattutto colpita dai processi di automazione.
Come stiamo vedendo anche in Europa, l’ondata della nuova destra sovranista ha come fine lo scarrocciamento del popolo del lavoro verso le suggestioni reazionarie. Del resto, in mancanza di ogni sogno che inverta la gerarchia fra lavoro e proprietà – com’è stato nel secolo scorso il socialismo – rimane solo il consumo a confortare la fatica produttiva. E quel consumo, in un regime di forte competizione globale, è conseguenza di una ricollocazione sul mercato del lavoro internazionale del proprio prodotto nazionale. Questa è la lezione impartita da destra alla sinistra.
L’innovazione tecnologica è stata un coadiuvante che ha promosso e guidato l’entrata sul mercato di miliardi di utenti, in precedenza rigorosamente esclusi da ogni interattività con i processi decisionali. Il salto dell’intelligenza artificiale ha collegato l’automazione del lavoro a quella delle mediazioni delle élite, cementando un blocco conservatore che mira ora a tagliare le unghie ai liberisti tout court, ripristinando gerarchie e tutele. Semplificare i vincoli statali, e ridurre la democrazia a una burocrazia da sfoltire, è ancora l’obiettivo comune dei due partiti che sorreggono il nuovo presidente americano: i reazionari nazionalisti e i liberisti digitali. Ma la posizione esplicitata da Trump riduce le ambiguità, rendendo esplicita la contraddizione su cui intervenire per uscire da quest’incubo di un fascismo di maggioranza. Siamo a un cambio di spalla del fucile capitalista, e dobbiamo capire come sia possibile riaccreditare una dinamica negoziale che costringa l’avversario a civilizzarsi.
Napoleoni intuì questa istintiva strategia del capitale rispetto all’attrito che la lotta operaia imponeva nella seconda metà del secolo scorso. Nel suo ultimo contributo – sul tema “Quali risposte alle politiche neoconservatrici?” – l’economista proponeva tre temi: il ripristino conflittuale di un vincolo “interno” al capitale sul terreno della distribuzione deve essere l’obiettivo primo della sinistra; il capitale ha un’immanente tendenza totalitaria; la crisi si manifesta ora nella distruzione di occupazione e nella frantumazione sociale. Per rispondere alla distruttività del capitale, e restaurare una dinamica democratica e di classe, occorre coniugare conflitto distributivo con politiche strutturali, che configurino concretamente una fuoriuscita dal capitalismo. Il risanamento finanziario e il miglioramento dell’efficienza – la “lotta alla rendita” – non sono valori in sé, ma parte di una politica economica di più largo respiro che deve avere obiettivi al di là di quanto l’assetto capitalistico può tollerare. Una visione che induce ad agganciare, seppure in termini conflittuali, proprio quel mondo dell’innovazione che potrebbe uscire largamente deluso dal legame con il trumpismo speculativo. Stiamo parlando di infrastrutture tecnologiche che, a differenza delle fabbriche fordiste, non possono prescindere da una complicità attiva con i propri utenti, che devono essere non solo fornitori di dati ma attivi artigiani di continui adeguamenti delle forme e dei contenuti dei sistemi automatici.
Quale capacità di intervento e quali figure professionali possono oggi sostituirsi agli operai del Novecento come controparte del dominio del capitale? È la domanda che, per troppo tempo, abbiamo lasciato in sospeso, e che Napoleoni, con il suo “cercate ancora”, ci spinge ad affrontare.
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