The Donald Show, seconda stagione: l’insediamento, la corte dei miliardari del tech, la mitragliata di ordini esecutivi

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Musica patriottica, bandiere sventolanti e un popolo in delirio: la spettacolarizzazione estrema di una cerimonia che avrebbe dovuto essere rigorosamente istituzionale, ma che invece si trasforma nell’ennesimo show

Washington DC – Alla Capital One Arena di Washington DC va in onda The Donald Show, seconda stagione. È la spettacolarizzazione estrema di una cerimonia che avrebbe dovuto essere rigorosamente istituzionale, ma che invece si trasforma nell’ennesimo comizio in stile elettorale. Musica patriottica, bandiere sventolanti e un popolo in delirio. “State assistendo all’alba dell’età dell’oro d’America”, ha scandito Trump ieri pomeriggio – 20 gennaio -, raggiungendo l’imponente palco, al ritmo della banda musicale che marcia nello stadio, anziché lungo Pennsylvania Avenue perché, a causa delle temperature artiche, la parata, come il giuramento, sono stati spostati al chiuso. Per l’occasione, la scenografia ad effetto include una scrivania di legno con le insegne della presidenza. È al centro dello stadio che Trump, dopo aver giurato a mezzogiorno come quarantasettesimo presidente nella Rotonda del Campidoglio, firma nove ordini esecutivi. La mannaia che sminuzza quattro anni di politiche di sinistra perpetrate dall’arcinemico Joe Biden. 

 

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Come Mosè sul monte Sinai con le tavole della legge, Trump mostra al popolo il plico aperto sulla grossa firma che congela le assunzioni federali, stabilisce il ritiro dal patto di Parigi sul clima, impone alle agenzie federali di lavorare ad un calmiere del costo della vita. Con un colpo da maestrante, poi, lancia alla folla le penne con cui ha siglato i primi atti. Qualche ora prima, a Capitol Hill, durante la cerimonia di insediamento il mondo ascolta un Trump improntato all’ottimismo, diverso da quello che giurò per la prima volta nel 2017, denunciando cupo la “carneficina” americana. Il neo presidente nel discorso ufficiale marca il territorio. In mezz’ora, dà il meglio di sé proponendo di rinominare il Golfo del Messico, Golfo d’America. Ha anche minacciato di riprendersi il Canale di Panama e di “lanciare astronauti americani per puntare la bandiera americana su Marte”. Questa volta alla corte del presidente populista, vestiti a festa ci sono i miliardari dell’high-tech: i ceo di Meta Mark Zuckerberg, di Amazon Jeff Bezos, di Google Sundar Pichai, di Apple Tim Cook e di TikTok Shou Zi Chew (in odore di rapido accordo). A capo di questa oligarchia postmoderna, Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che oggi sussurra all’orecchio del “leader del mondo libero”.

 

È il Day One. Non si aspettavano nulla di diverso i suoi sostenitori, quelli arrivati a Washington da ogni parte del paese, sfidando il clima polare di questi giorni che ha congelato i piedi, ma non il cuore. Neppure si sono lasciati intimorire dai prezzi folli imposti dal sistema alberghiero: una stanza in un hotel di seconda categoria ha sfiorato i mille dollari a notte. Fuori dallo stadio – che trasmette la cerimonia sui maxischermi –  le file per l’ingresso si dilatano per diversi isolati. Theresa, avvolta da un cappotto rosso in pendant con lo Stetson da cowgirl, è arrivata dal Kentucky. Mentre ci parla, stringe il bavero, sperando di trattenere un po’ di calore. “Non avrei rinunciato per nulla al mondo. Volevo essere qui per festeggiare il ‘mio’ presidente”. Il suo, di certo non Biden che considera l’impostore che ha rubato le elezioni del 2020. Marsha, poco distante, annuisce entusiasta. Lei viene dal Texas e sa che Trump terrà fede alle sue promesse. Le ripete come un mantra, come fanno ossessivamente tutti i suoi compagni di viaggio: confini chiusi, prima di tutto; rilancio dell’economia, annullamento delle politiche woke, liberazione degli insurrezionalisti del sei gennaio, che da queste parti chiamano problematicamente “j6 hostages”. 

 

L’accetta di Trump continua nello Studio Ovale, terza tappa dopo il giuramento al Campidoglio e la parata al Capital One. Arriva in serata per firmare una mitragliata di altri ordini esecutivi. Si siede al Resolute Desk, l’iconica scrivania di quercia, con la sicumera di chi torna in un luogo che conosce a menadito. Le foto di famiglia, sono già sistemate sulle mensole. Firma la grazia per oltre millecinquecento persone accusate dell’attacco al Campidoglio e commuta la pena dei facinorosi Proud Boys e degli Oath Keepers. I suoi patrioti, “ostaggi della sinistra”, saranno liberi. Chiacchierando con i giornalisti presenti, sigla anche le ordinanze che dichiarano i confini emergenza nazionale, designano i cartelli criminali come organizzazioni terroristiche, eliminano lo ius soli e sospendono il programma di ammissione dei rifugiati degli Stati Uniti. Tra gli ordini esecutivi anche il congelamento della legge che metterebbe al bando TikTok, a meno che la società cinese non ceda le sue attività negli Stati Uniti. Salva l’app, ma non ha nessuna pietà per i condannati, visto che ripristina la pena di morte federale sospesa dal suo predecessore. Ma ce n’è anche per la comunità Lgbtq+. In un decreto legato all’identità di genere saranno riconosciuti solo due sessi biologicamente distinti: maschio e femmina.

 

La raffica di provvedimenti si ferma solo quando arriva l’ora dei tre balli di gala ufficiali a cui Trump partecipa con una raggiante Melania in abito da sera bianco e nero (stavolta senza il cappellone anti-bacio esibito in Campidoglio). Con loro la second couple, J.D. e Usha Vance. In questo lungo weekend, tutta la città – tradizionalmente roccaforte democratica della diversità – si è trasformata in un grande salone delle feste. Basta sbirciare nei ristoranti più famosi, nelle hall degli hotel di lusso, nei bar più popolari per imbattersi in party privati affollati di donne in abito lungo e uomini in smoking. I cappelli da cowboy e gli stivali da cavallerizzo non si contano. È il segno che la Southern America ha invaso la capitale, spazzando via gli hipster liberal e gli strateghi democratici. Almeno per tre giorni. “Io non ne posso più”, ci dice sconsolato William, l’autista di Uber che ci ha recuperate appena fuori dalla zona rossa, quella delineata dalle barriere d’acciaio e sorvegliata da oltre venticinquemila agenti. Ci avverte che, data la situazione, la sua tariffa sarà più salata del solito. “A me già manca Joe Biden, ha fatto tanto per noi afroamericani. Credo che questa uscita di scena così umiliante sia stata una grande ingiustizia”. Non è il solo a pensarlo. Commuove il padre nobile della sinistra che lascia Washington dopo cinquant’anni ininterrotti di servizio. Prima di andare, ha graziato in via preventiva i fratelli e la sorella, il dottor Anthony Fauci, il generale Mark Milley e i membri della Commissione investigativa sull’assalto del sei gennaio. L’obiettivo è metterli al riparo da eventuali ritorsioni del suo successore. Il vecchio leone, subito dopo aver consegnato le chiavi della Casa Bianca ai nuovi inquilini, è volato con l’inseparabile Jill al sole della California. Non senza aver assicurato che non è tempo di smettere di combattere. Una speranza, più che una promessa.

 

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