Questione Baker Hughes, le responsabilità della classe dirigente calabrese in un “porto a perdere”

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CORIGLIANO-ROSSANO – La vicenda Baker Hughes nel grande porto della Sibaritide ha fatto emergere non solo l’insipienza della classe politica locale e calabrese, in generale, ma ha messo in luce anche le grandi contraddizioni che si continuano a vivere all’interno in Calabria e soprattutto nel territorio del nord-est. La lunga e sanguinaria discussione – buttata malamente nella caciara della campagna elettorale delle ultime comunali – nata attorno alla questione dell’insediamento industriale a bordo banchina, ha accentuato – non poco – il pregiudizio che si ha nei confronti di questa terra, oltre i suoi confini. E questo, lo si legge tutto e per intero in un dettagliato, cinico ma dannatamente vero, articolo apparso stamani sulle colonne de Il Sole 24 Ore a firma di Nino Amadore, che liquida il porto di Corigliano-Rossano come uno spreco che vale (fino ad oggi e dalla sua nascita) 50 milioni di euro.

Ecco, per il sistema Paese quella grande infrastruttura che si apre tra Thurio e Schiavonea, è solo una grande zavorra, alimentata – purtroppo – dalle politiche miopi della classe dirigente locale e calabrese. È una disamina secca, crudele e sacrosanta quella che fa il maggior organo di informazione economico italiano, che si “accorge” dell’esistenza di un “porto a perdere” proprio in conseguenza alla vicenda della multinazionale americana. «La punta di un iceberg, posato lì sulla costa jonica della Calabria, inerme e inutile o quasi».

Ed è una vicenda, come abbiamo sostenuto più volte proprio dalle pagine dell’Eco dello jonio, che chiama in causa tutta la classe dirigente della Calabria. Sintomatico che la favola che ci siamo raccontati e che ci stiamo raccontando ancora oggi di liquidare la vicenda BH come un peccato squisitamente circoscritto a Corigliano-Rossano è solo una grandissima boutade. Una scusa per nascondere responsabili e colpevoli che sicuramente stanno in questa città, ma non solo in questa città.

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Pochi giorni fa ci chiedevamo che fine avessero fatto quei buoni propositi, spiattellati sui tavoli dell’emiciclo civico lo scorso 24 ottobre (giorno in cui andò in scena il Consiglio comunale farsa sulla vicenda Baker Hughes), di rimettere mani subito e tutti insieme alla realizzazione di una pianificazione proficua per lo sviluppo del porto. Sono trascorsi tre mesi da allora e della grande darsena della Sibaritide non ne parla più nessuno. Passato il santo è passata pure la festa e tutto sarà sicuramente rimandato ad una prossima – semmai ci sarà! – proposta. Del resto, alle nostre latitudini – si sa – è più “entusiasmante” per la politica parlare dell’acqua che manca, delle buche per strade o dell’erba alta che non pianificare e battersi per le grandi questioni, quelle che possono rivoltare il destino (crudele) di questo territorio. E questo, purtroppo, è un “peccato” che ormai ci riconoscono dappertutto.

La vicenda Baker Hughes – si legge sul quotidiano economico – chiama in causa la classe dirigente della Calabria e non solo per l’opportunità persa di recente «ma – scrive Amadore – per tutto ciò che poteva essere fatto e non è stato fatto per questo porto, che aspetta un nuovo piano regolatore, nato con l’obiettivo di dare a questo pezzo di Mezzogiorno una prospettiva di sviluppo che allora si immaginava sul fronte petrolchimico».

Ma forse, volendo essere ottimisti fino al midollo, non tutto è perduto. Se la “rivoluzione industriale” nel porto è sfumata per sempre c’è tutto un altro mondo che può essere ancora esplorato e sta tutto nel retroporto. La Piana di Sibari, nell’area adiacente al porto, è la sede del Distretto agroalimentare di qualità che comprende 31 comuni, tra cui Corigliano Rossano, e opera su una superficie di 184 mila ettari di terreno con un centinaio di imprese consorziate. «Un’area che si candida naturalmente a essere volano per lo sviluppo economico della Calabria, con la presenza di due Aree di sviluppo industriale situate in territorio contiguo». E a dirlo è il presidente di Confindustria Cosenza, Giovan Battista Perciaccante, proprio al giornale milanese. «Il porto di Corigliano Rossano ha tutte le caratteristiche per aspirare a uno sviluppo coerente con le vocazioni del territorio potendosi porre utilmente al servizio tanto della pesca che delle produzioni presenti nell’area che di un auspicabile utilizzo per il turismo crocieristico. Il Distretto agroalimentare della sibaritide con le sue produzioni d’eccellenza, potrebbe realizzare da subito un salto positivo nella propria capacità di competere sui mercati internazionali grazie alla possibilità di utilizzo di un porto posizionato in maniera strategica rispetto ai principali mercati di riferimento. Bisogna abbandonare pigrizie e anacronistiche rendite di posizione a favore di un impegno in direzione della valorizzazione e del rilancio strutturale di questa infrastruttura che rappresenta una delle principali risorse per il territorio». Già, si direbbe.

In tutti questi anni – questi i conti de Il Sole 24 ore – a voler fare il calcolo di quanto è costato il porto ai contribuenti, arriviamo a una stima (per difetto) di una cinquantina di milioni. I fondi programmati per il rilancio superano (parliamo sempre di stime) i cento milioni. Di fatto oggi lo scalo di Corigliano-Rossano, con fondali di 12 metri, 5 banchine operative, piazzali molto grandi, è utilizzato al minimo: una quarantina di pescherecci di dimensioni medio-piccole popolano una delle due darsene (che ha fondali da 7 metri) e i piazzali sono utilizzati per un’attività di riciclo e commercializzazione di ferraglia.

Insomma, se non siamo messi malissimo… poco ci manca!





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