Trump chiama a rapporto i proconsoli di destra per l’inaugurazione

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Viktor Orban, forse fiutando l’aria, si è sfilato all’ultimo: il primo ministro ungherese non presenzierà, nonostante l’invito, alla seconda inaugurazione presidenziale di Donald Trump nella rotonda del Capitol Building a Washington, al chiuso per la prima volta del 1985 a causa del freddo glaciale che sferza la capitale americana.

Chi sfilerà all’inaugurazione del Trump 2.0

L’amico Trump, da lui sostenuto quando anche la sua rielezione alla Casa Bianca sembrava remota, non ha bisogno di ulteriori dimostrazioni di fedeltà e amicizia: Pas de zéle, diceva il conte Tayllerand, regista diplomatico della Francia borbonica, rivoluzionaria e napoleonica. Per questo Orban non sarà a Washington. Ci sarà, invece, il presidente del Consiglio italiano Giorgia Meloni, ad oggi assieme al presidente argentino Javier Milei unico capo di Stato o di governo estero che ha confermato ufficialmente di arrivare a Washington per l’insediamento di The Donald, che ha deciso di rompere una secolare tradizione invitando leader stranieri a una cerimonia storicamente riservata a diplomatici e ambasciatori.

Potrebbe unirsi a loro Nayib Bukele, presidente dell’El Salvador, ma soprattutto si unirà un ampio manipolo di leader politici di destra europei. Ci sarà Santiago Abascal, leader della spagnola Vox; non mancheranno Eric Zemmour e Marion Maréchal di Riconquista e Identità-Libertà, i partiti francesi che a destra contendono lo spazio al Rassemblement National; ci saranno Paolo Borchia, presidente del gruppo parlamentare della Lega al Parlamento Europeo, Tom Van Grieken, leader della destra nazionalista fiamminga di Vlaams Belang, l’ex premier polacco e presidente del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei Mateus Morawiecki e ben tre esponenti di Alternative fur Deutschland: i leader parlamentari al Bundestag Jan Wenzel Schmidt e Beatrix von Storch e Tino Chrupalla, co-leader del partito assieme alla candidata cancelliera Alice Weidel. Quest’ultima, assieme al primo ministro austriaco incaricato Herbert Kickl, capo del Partito della Libertà vincitore delle elezioni di settembre, era stata invitata ma non presenzierà.

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Inoltre, arriverà un caro amico di Trump, Nigel Farage, con cui i rapporti sono personali oltre che politici. Il leader di Reform Uk arriverà oltre Atlantico sulla spinta di sondaggi che danno il suo partito nazionalista e anti-immigrazione in volo nei consensi, vicino a Conservatori e Laburisti e pronto a trasformare in tripolare il sistema politico britannico, e dopo aver ricomposto la frizione politica con Elon Musk che lo aveva giudicato “inadatto” a guidare l’erede dell’United Kingdom Independence Party e del Brexit Party negli anni a venire.

Orban ha fiutato i rischi del viaggio?

Orban ha fiutato probabilmente cosa si preparava a Washington: la parata delle destre nazionaliste e occidentaliste per baciare la pantofola del nuovo imperatore, in una dimostrazione di solidarietà e vicinanza che Trump, in questo mandato, è pronto a chiedere ai leader ideologicamente affini nel mondo. Parliamo dei simboli di un nuovo modello politico libertario sul piano economico, conservatore su quello sociale e fortemente occidentalista e identitario che ha superato il vecchio riferimento sovranista per entrare in un campo “liquido” dove le minacce da combattere sono più indistinte.

Dal presunto “woke” al legame tra immigrazione di massa e sviluppo delle politiche ambientaliste, unitamente a una comune critica verso la “censura” e alla rivendicazione di un concetto di libertà d’espressione senza responsabilità, le minacce e le battaglie di questo nuovo mondo di destra sono meno solide e più liquide di quelle dell’ondata sovranista dello scorso decennio. E, soprattutto, sono tutte intrinsecamente made in America, sulla scia di una costruzione ideologica che salda populismo di destra (movimento Maga), tecno-accelerazionismo (il ruolo di figure come Musk e, soprattutto, Peter Thiel, è decisivo) e un vero e proprio “vangelo libertario” il cui araldo è il presidente argentino Milei. Unica figura di quelle elencate che sarà soggetto attivo politico e a cui è garantito un ruolo paritario.

I primi tifosi del Trump 2.0

Per tutti gli altri, è atteso al massimo un ruolo da comprimari o da “primi tifosi” del Trump 2.0. Il rischio è che Meloni non abbia colto quel che Orban ha compreso, ovvero che la presenza al fianco di The Donald all’inaugurazione la posizionerà inevitabilmente in un gruppo di leader e figure inevitabilmente in cerca di autore che saranno, nei prossimi anni, amanti della sovranità nazionale solo in misura in cui essa si conformerà alle regole e ai desiderata dell’America trumpiana. Nulla di diverso da quanto fatto da molti esponenti dell’intellighenzia politica progressista di fronte alle fasi positive per il Partito Democratico americano.

Per la premier italiana, la mossa rischia di essere doppiamente spiazzante: da un lato, nel contesto di rapporti con gli Usa su cui, per affinità ideologica, Meloni si dichiara pronta a correre in soccorso al vincitore abdicando in partenza a ogni possibile posizione negoziale verso l’America di Trump. Dall’altro, nel quadro dell’Europa in cui la sensazione è che Roma possa cercare di coltivare i legami privilegiati con Washington come alternativa a un asse franco-tedesco tremante politicamente ma che potrebbe riorganizzarsi proprio in opposizione a Roma. Guardando con una metafora corporate al sistema in sdoganamento, è come se il terzo azionista della “Europa S.p.a.” decidesse di fare comunella con chi, sulla società, voglia organizzare un’Ipo o una proposta d’acquisto. Il rischio che il primo e il secondo azionista, per quanto in difficoltà, propongano ritorsioni politiche non è da escludere. Orban l’ha capito, Meloni no: la diplomazia politica ordinaria deve prevalere su quella personale. A meno di accettare di essere oggetto, e non soggetto, di queste dinamiche.

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