La prima notte di silenzio, al buio ma senza bombe, e nessuno sparo da una parte e dall’altra. Troppo presto per chiamarla «pace». Ma nessuno è morto stanotte, e questo per ora basta a far riassaporare il tempo di una tregua armata, quando tenere la mano sulla fondina è sempre meglio che premere il grilletto.
Tacciono le armi a Gaza. Non in Cisgiordania, dove la pressione delle forze armate israeliane aumenta. Questa mattina il sergente riservista Eviatar Ben Yehuda è stato ucciso nel corso di una operazione militare nel Nord della Palestina.
Nella Striscia 630 camion con aiuti umanitari sono entrati dal valico meridionale di Rafah, dove colonne di mezzi attendono da settimane di accedere dal confine egiziano. Lo ha confermato Tom Fletcher, sottosegretario generale delle Nazioni Unite per gli affari umanitari, precisando che almeno 300 camion sono stati diretti nel nord della Striscia di Gaza. «Dopo 15 mesi di guerra incessante, le necessità umanitarie sono enormi – ha detto Fletcher -, non c’è tempo da perdere».
Domenica sera nella parrocchia di Gaza, quando ormai era buio, è squillato il telefono di don Gabriel Romanelli, il parroco argentino che con le suore di Madre Teresa di Calcutta e i volontari cristiani e islamici ha tenuto insieme e al sicuro centinaia di civili nei locali parrocchiali. A chiamare era Papa Francesco. «Ci ha detto: sono contento che la pace a Gaza sta arrivando». Il sacerdote racconta le prime emozioni della persone asserragliate nella parrocchia da 472 giorni. La gente è contenta anche se sa che la tregua non è ancora la pace». La speranza è che questo sia «l’inizio di un cammino di pace e di una fase nuova in Terra Santa e di riconciliazione e giustizia tra palestinesi e israeliani». Durante i rari momenti di pausa tra una raffica e l’altra, a Gaza si erano abituati a riconoscere un rumore di fondo. Il ronzio incessante dei droni israeliani. Neanche quello si è sentito la notte scorsa. «Questo silenzio è assordante perché attira l’attenzione», ha detto padre Romanelli a Vatican News, «abbiamo cominciato a ringraziare Dio, perché questa tregua è un dono di Dio, e a pregare anche per tutti i responsabili delle diverse parti, della Palestina e di Israele, e del gruppo degli altri Paesi che si è impegnato per questa tregua».
La carenza di cibo ha spesso irritato la gente di Gaza con chi, tra loro, della guerra si sta approfittando. «I prezzi sono ancora alle stelle – racconta padre Gabriel – ma ieri, come ogni domenica, abbiamo voluto fare un pranzo speciale. La frutta e la verdura sono arrivate grazie alle donazioni del Patriarcato latino di Gerusalemme ma ci sono molti carichi di aiuti al confine e del cibo è già andato a male. Quindi alcuni giovani stanno facendo la selezione per distribuirlo alle famiglie della parrocchia e nei quartieri più poveri di Gaza City».
Dopo il rilascio di ieri, avvenuto non senza tensioni e momenti di caos a Gaza, quando il convoglio della Croce rossa ha dovuto attraversare la folla di decine di miliziani a volto coperto, Romi Gonen, Emili Damari e Doron Steinbrecher hanno trascorso la prima notte nelle strutture sanitarie protette, dove vengono curate e accompagnate nella difficile riemersione dall’abisso di 471 giorni di prigionia. Per tutta la sera a Tel Aviv come a Gerusalemme il loro ritorno è stato festeggiato tra commozione e speranza, quando ricomincia la spasmodica attesa per il prossimo rilascio, previsto tra sabato e domenica. Altri: 4 israeliani sequestrati con altri 250 il 7 ottobre 2023 mentre altri miliziani di Hamas brutalizzavano e trucidavano più di 1.200 persone.
Nel negoziato per il cessate il fuoco l’organizzazione armata ha ottenuto la promessa di rilascio di oltre 1.900 detenuti palestinesi. I primi 91 sono usciti ieri dalle carceri israeliane: 69 donne e 21 ragazzi adolescenti dalla Cisgiordania e da Gerusalemme Est. Tra loro la 62enne Khalida Jarrar, leader palestinese del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp), accolta al suo arrivo a Ramallah da una folla in festa e dai parenti. Dalla fine del 2023 era stata tenuta in detenzione amministrativa rinnovabile a tempo indeterminato, una pratica ampiamente criticata che Israele usa contro i palestinesi. «Stiamo vivendo questa doppia sensazione, da un lato la libertà per la quale ringraziamo tutti, e dall’altro questo dolore per la perdita di così tanti martiri palestinesi», ha detto la donna all’Associated Press, senza accennare alla sorte degli ostaggi israeliani.
Ciascuno guarda al proprio campo, e sembra ancora lontana la possibilità di riconoscersi reciprocamente sia nel male della guerra che nel bene della ritrovata libertà. Il conflitto senza armi sarà quello più difficile da spegnere. Tra gli altri detenuti rilasciati c’è Bushra al-Tawil, una giornalista palestinese incarcerata in Israele nel marzo 2024. «L’attesa è stata estremamente dura. Ma grazie a Dio – ha detto -, eravamo certi che da un momento all’altro saremmo stati rilasciati». In libertà è tornata anche Shatha Jarabaa, 24 anni, arrestata per un post sui social media nel quale criticava la «brutalità» dell’operazione militare di Israele a Gaza. «Mi hanno trattato molto male in prigione. E’ stato orribile», ha detto tornando a casa. Ahmad Khsha, 18 anni, arrestato nel gennaio 2024 a Jenin sostiene di avere subito torture fino al giorno prima della scarcerazione: «Hanno fatto irruzione nelle nostre celle sabato prima di liberarci e ci hanno lanciato gas lacrimogeni».
Parole che fanno della tregua un periodo nel quale l’astio continuerà a covare e non è detto che 42 giorni di cessate il fuoco saranno sufficienti a disinnescare le conseguenze della rabbia.
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