Jonathan Safran Foer: “Trump, Netanyahu e Putin sono segni di un malanno universale”

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Da qualche giorno, il romanziere Jonathan Safran Foer vive a Roma con la sua famiglia. Non è scappato da Trump, ma è andato alla ricerca di un posto che potesse garantire a lui e ai suoi figli nuove prospettive culturali, mentre gli Stati Uniti si preparano al secondo insediamento del presidente meno culturalmente invitante della storia del Paese – nonché il primo e unico presidente condannato di fronte a una corte penale.

Foer, che a quarantasette anni non ha perso il suo sguardo ironico sul mondo, non riesce a rinunciare a una visione ideologica e romantica che molti, negli ultimi tempi, tra guerre, pandemie e incendi devastanti, hanno perso per strada.

È lo stesso ragazzo che andava alla ricerca del suo passato nel 2001 per poi trarne il suo folgorante esordio, Ogni cosa è illuminata (pubblicato in Italia da Guanda per la traduzione di Massimo Bocchiola), e lo stesso fervente attivista del suo ultimo saggio Possiamo salvare il mondo prima di cena (Guanda, tradotto da Irene Abigail Piccinini).

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Si preoccupa per il clima, per la consapevolezza alimentare e, soprattutto, per il futuro dei suoi ragazzi, lasciato nelle mani di chi controlla il mondo. Coloro che il noto disilluso Jonathan Franzen definisce “pure evil” – malvagità pura – e che Foer liquida con una risata.

Com’è l’America vista da fuori?
«Non molto diversa che da Brooklyn. Ho la sensazione di aver sempre vissuto in un’isola felice e di non aver mai saputo molto dell’America. Per esempio, nel 2016 ero certo che Hilary Clinton avrebbe vinto le elezioni, e questa volta ero sicuro che Kamala Harris non avrebbe avuto grandi difficoltà. È difficile essere globalmente oggettivi. Ed è molto facile sbagliarsi di grosso».

È una questione geografica?
«È una questione di contesto. Affrontare lo stesso problema politico dalla prospettiva di un campus universitario o dalla sala riunioni di una grande azienda, cambia profondamente la natura del problema stesso. Non è politica».

E cos’è?
«Il mondo sta cambiando, dappertutto si assiste a una deriva verso l’estremismo, verso l’eccesso di violenza, verbale o fisica. Trump – e così Netanyahu, Putin, Meloni – non sono che un sintomo della profonda crisi globale che stiamo vivendo; del malanno universale che ci ha colti tutti, e che non è contenuto nei confini di una nazione o di un continente, è dappertutto».

Come lo riconosciamo?
«È difficile perché non ha un colore politico. È vero che notiamo uno spostamento verso l’estremismo di destra, ma personalmente vedo la stessa tendenza a sinistra. Più volte mi sono trovato a discutere con persone con le quali condivido le idee liberali e la visione del futuro, ma che hanno un’idea diversa da me su come raggiungerlo. Penso che la difficoltà stia nell’accettare che esistano le differenze di visione, a destra e a sinistra, e che si possa arrivare a un compromesso. Gridano tutti, e nessuno ascolta».

Non c’è più spazio di dialogo?
«No, si è tornati a un radicalismo allarmante quando si tratta di imporre la propria visione. Quando Trump usa un linguaggio o prende una posizione che può sembrare illiberale o addirittura totalitaria, il problema non sta tanto in quello che dice ma in come lo dice, nel modo che ha di non ammettere obiezioni. La chiusura non sta tanto nelle idee, ma nel modo di trasmetterle».

Da dove viene il malanno?
«Soprattutto dal sentimento di alienazione che tutti, a vari livelli, stiamo vivendo. E si traduce in paura. Si possono definire i sostenitori di Trump razzisti, xenofobi e illiberali, ma in questo modo si compie il loro stesso errore di valutazione. Si cede alla paura e si rinuncia alla comprensione. I trumpiani sono spaventati esattamente quanto possono esserlo gli elettori di Harris o di Bernie Sanders».

Da cosa?
«Nel caso dei trumpiani, dal venire “sostituiti”. Ed è molto più semplice pensare che odino tutti i diversi, piuttosto che interrogarsi sulla matrice del problema e ammettere che, in effetti, il mondo sta cambiando e che quello che loro chiamano “sostituzione” è un fenomeno che sta veramente avvenendo, perché le masse umane si spostano e si instaurano in comunità diverse dalle loro; che c’è chi per questo rischia di perdere il lavoro e di rimanere indietro. E questo è spaventoso. Eppure, si può ancora collaborare per accettare il cambiamento e trarne qualcosa di positivo per tutti».

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Lei è un romantico…
«Cerco di essere realista. Siamo immersi nella globalizzazione forzata dalla tecnologia e dai Social – che sono il vero male della nostra epoca. Quando ho pensato di cambiare paese, più che in un’ottica politica, l’ho fatto in ottica culturale. Pensavo a quale sarebbe stato l’ambiente culturale migliore nel quale i miei figli potessero crescere, e ho dovuto ammettere che non è così semplice. Non più».

Come mai?
«Perché la cultura si sta appiattendo. Stiamo andando incontro all’unificazione culturale e non esiste più una cultura americana, italiana, europea, sudamericana; ma sempre di più esiste una cultura di Apple, Netflix, Twitter, Facebook. E questo è chiaro soprattutto a chi ha saputo approfittarne e sta accompagnando Trump verso il suo secondo mandato».

È un po’ triste…
«È molto più che triste: queste culture ipertecnologiche e globaliste sono molto molto più povere – e in una parola peggiori – delle singole culture che stanno rimpiazzando».

Qual è la sua soluzione?
«Bisognerebbe impegnarci nel cercare di creare un sistema di micro-culture, ovunque ci troviamo, che rendano il nostro intorno un posto migliore. Ad esempio: è impossibile impedire a un singolo quindicenne di possedere e utilizzare uno smartphone, ma se una comunità di genitori decide collettivamente di limitare l’accesso alla tecnologia ai propri figli fino a un’età stabilita, si genera un ambiente costruttivo, sano e non impositivo in cui c’è ancora spazio per il dialogo intergenerazionale. L’importante è che sia una decisione collettiva».

Un po’ ideologico…
«Forse abbiamo bisogno, di ideologia. Trump non si è ancora insediato e abbiamo già fatto decine di passi indietro su altrettante conquiste fondamentali avvenute negli ultimi decenni. Stiamo tornando indietro sul dialogo riguardo il clima, l’inclusività, l’accoglienza, il cibo. Personalmente, sono più spaventato dal cambiamento di visione di Mark Zuckerberg rispetto al controllo dei Social. L’ho trovato molto più minaccioso di qualsiasi posizione possa aver assunto Trump in campagna elettorale».

In che senso?
«Trump è noto per il fatto di parlare molto prima di pensare o di chiedersi se i suoi propositi possano essere messi in pratica».

È un fanfarone…
«Diciamo così. Ed è circondato da altri come lui – Elon Musk, ad esempio. Però tra quello che dichiarano e quello che fanno passa tutta la realtà dei fatti. Zuckerberg ha il controllo della comunicazione e si basa su assunti molto più pratici e, soprattutto, su interessi molto più concreti: il suo prendere una posizione per favorire la tendenza politica è sintomatico e, francamente, allarmante».

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Quindi non è Trump la vera minaccia alla libertà?
«Non direttamente, no. Quando lui minaccia di far arrestare i suoi oppositori, di allontanarli, perfino di “farli sparire”, lascia il tempo che trova. Ma quando Zuckerberg dichiara che cambierà le policy sul controllo delle informazioni in quello che di fatto è il network di informazione più capillare del mondo, in pratica sta dicendo che adatterà la verità oggettiva al pensiero di Trump. E questo è un attacco reale alla libertà di tutti noi».

Come ci si difende?
«Stabilendo la propria libertà, che non sta nel lasciare il proprio Paese o nel rimanere quando tutto crolla, ma nel definirsi liberi all’interno della società. E mantenendo un pizzico di positività: non è passato molto dall’elezione di Barack Obama e il cambiamento radicale avvenuto dopo di lui suggerisce che dopo Trump potrà esserci una svolta altrettanto radicale, questa volta in positivo».

Speriamo…
«È quello che faccio meglio».



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