Gli studenti serbi protestano contro Vucic, mentre i servizi spiano gli attivisti

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In Serbia nelle aule delle università, lungo le strade che circondano gli atenei, non si fa più lezione. Non si studia, non si sostegno esami, non si insegna: si marcia. L’ora più buia per il governo Vucic scocca quasi ogni giorno alle undici e cinquantadue minuti: è il momento esatto in cui, il primo novembre scorso, è collassato il tetto della stazione di Novi Sad su quindici persone che hanno perso la vita. È il momento esatto in cui, da allora, scoccano quotidianamente proteste, scioperi, commemorazioni, sit-in degli studenti serbi, che ora chiedono indagini e arresti dei responsabili.

Nelle piazze serbe non ci sono solo gli iscritti dell’università di Belgrado, ma anche quelli di Nis, Kragujevac e altre città del paese che si uniscono a un dissenso collettivo, sempre più diffuso e sempre più incontenibile per l’esecutivo nazionalista che guida il paese. La miccia delle marce a cui hanno partecipato decine di migliaia finora è stata la richiesta di giustizia per le vittime di Novi Sad: ora però giustizia la vogliono per tutti, insieme alle dimissioni immediate del presidente conservatore che non se ne va e giura vendetta.

Da settimane i giovani belgradesi paralizzano il traffico, ma anche la vita politica serba. All’ultima manifestazione, qualche giorno fa, gli studenti avevano tutti bende bianche sugli occhi: sono rimasti immobili per 15 minuti, un minuto per ogni morto alla stazione di Novi Sad. A dicembre hanno costruito alte colonne di carta – fatte di libri – al ministero dell’Educazione.

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Il 12 gennaio sono rimasti in silenzio 15 minuti e poi hanno cominciato a intonare un coro di fischi di fronte la corte Costituzionale di Belgrado. Richiedono di visionare i documenti, piani e progetti di rinnovamento della stazione costruita negli anni Sessanta e ammodernata dalle aziende cinesi che operano nel paese in seguito alla firma del memorandum con Pechino siglato nel 2015 durante un summit organizzato tra Dragone e Cee (paesi dell’Europa centro orientale).

Tra gli obiettivi della cooperazione, la costruzione di ponti, tunnel e strade, infrastrutture connettive tra gli stati della regione orientale dell’Ue. Alla cerimonia d’inaugurazione della stazione di Novi Sad, snodo logistico tra Belgrado e Budapest, infatti nel 2022 non c’era solo Vucic, ma anche l’ungherese Viktor Orbán.

Le accuse ai manifestanti 

I giovani che vogliono i responsabili del disastro di Novi Sad prima in tribunale e poi in galera non sono stati accontentati se non per un brevissimo momento: tra la decina di persone finite in manette, ma per poco tempo, c’era anche Goran Vesic, ex ministro dei Lavori pubblici. Già dimissionario (come il ministro del commercio Tomislav Momirovic), è tornato comunque in libertà quando le accuse contro di lui sono cadute. Il suo ruolo è stato assunto temporaneamente assunto dal ministro per investimenti pubblici Darko Glisic.

Vucic – che nega ogni accusa di nepotismo e corruzione della piazza – il 26 dicembre ha detto che quelle a cui sta assistendo praticamente ogni suo cittadino non sono proteste studentesche: hanno supporto dall’estero, «nei prossimi giorni molte prove riveleranno che c’è supporto di attori stranieri», dei «potenti del mondo» che hanno in particolare tre ragioni per alimentarle: «Vogliono finire il lavoro col Kosovo il prima possibile, non possono sopportare che la Serbia sia una potenza leader della regione, la Serbia ha resistito al voto della risoluzione su Srebrenica all’Onu».

Ora che la sua opposizione lo chiama come il siriano che si è rifugiato in Russia, risponde che, a differenza di Bashar al Assad, lui non scapperà. Vucic ha anche accusato l’intelligence straniera di essere dietro la diffusione delle manifestazioni che si espandono a macchia d’olio per rendere la Serbia stato vassallo: «Combatterò per la Serbia e servirò solo la Serbia, mai stranieri che vogliono sconfiggere, umiliare distruggere la Serbia».

Un’intelligence c’entra, ma in un altro modo, ed è quella serba. Un’indagine di Birn (Balkan Insight) ha svelato come i servizi segreti di Belgrado riescano a penetrare nei telefoni degli attivisti, forzando i cellulari da remoto con tecnologia israeliana. Lo spyware capace di estrarre dati, contatti, immagini e informazioni contenute nei dispositivi ha un nome emblematico: NoviSpy.

Prigione digitale: sorveglianza e repressione della società civile in Serbia è il titolo del rapporto pubblicato da Amnesty International a dicembre per documentare come la tecnologia dell’azienda israeliana Cellebrite sia utilizzata per perseguitare i ragazzi in strada a Belgrado. Costituisce in generale – scrive l’ong – «un rischio enorme per quelli che difendono i diritti umani, ambiente e libertà di parola, quando utilizzata al di fuori di rigoroso controllo e supervisione legale». I servizi segreti serbi (Bia) sono stati anche accusati di diffondere online i dati di chi prende parte alle manifestazioni.

Le sparatorie di massa

Non ci sono solo i morti di Novi Sad e le strade non si sono riempite solo negli ultimi mesi. Riunite dal movimento ombrello “Serbia contro la violenza”, proteste c’erano state anche in seguito a due massacri di massa avvenuti a maggio 2023, quando un 13enne della Capitale, con la pistola di suo padre, ha ammazzato 9 coetanei, alunni della sua stessa scuola e, solo un giorno dopo, nel villaggio di Malo Orashje, un 21enne ha ammazzato otto persone e ne ha ferite 14. Anche in quel caso gli studenti urlavano la stessa parola di oggi: “dimissioni”. Dimissioni di Vucic e di un governo accusato di diffondere una cultura dell’odio che pompa poi da tabloid e tv allineati all’esecutivo.

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A dicembre 2023, invece, due settimane dopo le urne nazionali e regionali del 17 dicembre (quelle in cui il Partito progressista serbo si è assicurato una ventina di punti in più rispetto all’opposizione) le strade del centro di Belgrado si sono riempite ancora, per richiedere trasparenza sul processo di voto. La commissione elettorale nazionale ha respinto all’epoca il ricorso dell’opposizione che aveva richiesto l’annullamento del voto; la premier Ana Brnabic disse no all inchieste Ue su potenziali brogli elettorali: significherebbe rinunciare, chiosò, alla sovranità nazionale per un’indagine internazionale.

Carriera a zig zag

Nato politicamente nel 1993 nella culla del destrorso partito radicale serbo di Vojislav Seselj, Vucic è diventato nel 1998 ministro dell’Informazione nell’èra Slobodan Milosevic. Oggi dice di voler entrare nella famiglie Ue, ma ieri era nelle sue black list. Solo nel 2008 ha denunciato e condannato un nazionalismo da lui stesso propagato fino a un decennio prima. Entra nelle fila del Partito progressista serbo – che conquista il potere nel 2012 per non mollarlo più – e nel 2014 diventa premier.

Da allora è stato un capo di Stato zig zag, che un po’ vuole l’Occidente, un po’ lo accusa, che ambisce a fare parte dell’Unione europea, ma anche a non lasciare l’abbraccio della storica alleata Mosca. Non è detto che crolli il tetto – politico  – sulla sua testa per le manifestazioni che non promettono di interrompersi a breve, ma questi sono di certo i quindici minuti più lunghi del suo governo: durano già da mesi e per qualcuno potrebbero davvero rivelarsi gli ultimi.

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