Giubileo della speranza. parla mons. Camisasca

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Il 24 dicembre 1999 papa Giovanni Paolo II, già ammalato e claudicante, attraversò la Porta Santa tra gli sguardi dei presenti, nel silenzio che cala quando si presenzia alla storia che si fa. A rivederlo oggi nei filmati dell’epoca colpisce ancora lo sguardo contrito del futuro santo, all’inizio del Giubileo culminato con la storica XV Giornata Mondiale della Gioventù di Roma che radunò oltre 2,5 milioni di giovani nella capitale.

Venticinque anni dopo, davanti alla Porta c’è Francesco, in sedia a rotelle, anch’egli malato e sofferente, molto diverso da quello stesso Papa che l’aveva varcata nel 2015 con passo spedito e volto sorridente in occasione del Giubileo straordinario della Misericordia. Come Wojtyla un quarto di secolo prima, anch’egli il 24 dicembre 2024 si è raccolto in silenzio per alcuni istanti, in un’intima preghiera per tutta l’umanità. Il primo pensiero forse va alle guerre in atto, per cui il Papa non si stanca di chiedere una pace giusta, con un perentorio richiamo a unirsi alla sua preghiera.

Non a caso al centro di questo Anno Santo il Pontefice ha voluto mettere la speranza, come testimoniato dal motto giubilare “Peregrinantes in spem” (Pellegrini di speranza). A Roma nel corso dei dodici mesi sono attesi milioni di fedeli che da tutto il mondo si metteranno in cammino per attraversare la Porta, a questo gesto si lega infatti la possibilità di ottenere l’indulgenza plenaria. Questa grazia si riserva eccezionalmente nell’occasione ai pellegrini che si recano nei luoghi sacri giubilari, che comprendono le quattro Basiliche Papali Maggiori di Roma, la Terra Santa e le altre circoscrizioni ecclesiastiche, e che prendono parte in questi siti a un momento di preghiera, celebrazione o riconciliazione.

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Per meglio comprendere la portata di un momento tanto importante per la Chiesa e il tema al centro del Giubileo abbiamo intervistato monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla, teologo, fondatore e superiore generale per lungo tempo della Fraternità sacerdotale dei missionari di san Carlo Borromeo, oltre che autore per Tempi di numerosi articoli e interventi.

Monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla (foto Ansa)
Monsignor Massimo Camisasca, vescovo emerito di Reggio Emilia-Guastalla (foto Ansa)

Cosa significa oggi farsi portare «senza indugio» dalla speranza per un cristiano, come indicato da Francesco nell’omelia del 24 dicembre, in un mondo che continua ad essere afflitto dalle guerre e dal dolore, e ancor più per la Chiesa che si trova a contrastare una cultura dominante sempre più nichilista e razionalista?

Oggi si allude alla speranza in molte occasioni, ma ho paura che questa fugga quando se ne parla troppo senza conoscerne le fondamenta. La si può facilmente confondere con un sentimento vago di aspettativa, di cambiamento, che tuttavia non si sa da dove possa venire. Il primo servizio che possiamo fare alla speranza, perché possa nascere in noi, e quindi negli altri, è di chiarirne il reale significato. Molte volte si pensa che la vittoria di questa virtù verrà quando nella nostra vita non ci saranno più difficoltà o angosce ultime, ma non è così. Questo non è concesso all’uomo.

La Chiesa come intende la speranza?

Per noi cristiani la speranza è rivolta ultimamente ad un’attesa oltre il tempo di questa terra. Attendiamo da Dio il compiersi delle promesse che Lui ha posto dentro di noi. Durante il tempo della vita ci è concesso di attraversare le difficoltà, le paure e le angosce e conquistare, proprio attraverso di esse, una luce che illumini la nostra esistenza.

Tante volte, tuttavia, le difficoltà sembrano insormontabili. A chi guardare per non soccombere?

Se noi guardiamo le vite di coloro che hanno veramente seguito Gesù, cioè i santi, vediamo che le loro esistenze sono state attraversate da una infinità di problemi e di muri. Eppure non hanno perso la speranza. Pensiamo a san Francesco e alla sua perfetta letizia, raccontata nel settimo capitolo dei Fioretti, in cui il santo parla di una enorme difficoltà che sta vivendo, cioè il rifiuto da parte dei suoi confratelli. Lui dice che proprio in questo c’è grande speranza: proprio qui c’è grande possibilità di letizia, nel saper leggere ciò che Dio sta facendo e ciò che Dio sta operando per la sua vita.

Cosa può opporsi a questa virtù?

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L’opposto della speranza è la solitudine. Quando noi ci concepiamo da soli o siamo soli, corriamo il forte rischio di perdere la consapevolezza che la nostra vita è posta dentro una continua alleanza tra Dio e il suo popolo. Quindi per vivere la speranza è fondamentale trovare degli amici, persone in grado di illuminare la nostra esistenza e darle un peso realmente positivo, che possano aiutarci a cogliere il bene che Dio vuole insegnarci anche attraverso la difficoltà. Altro elemento che aiuta a ritrovare questa fiduciosa attesa nei momenti più bui è la memoria delle vicende positive che abbiamo vissuto grazie alla sequela di Dio.

La speranza non delude (Spes non confundit, Rm 5,5) è il titolo della bolla di indizione del Giubileo, perché questa virtù teologale è «fondata sull’amore». Il Papa nel documento scrive che «la speranza cristiana non è un lieto fine da attendere passivamente, non è l’happy end di un film: è la promessa del Signore da accogliere qui, ora, in questa terra che soffre e che geme». Come coltivare la pazienza, a cui invita Francesco, e non farsi cogliere da un atteggiamento di sfiducia?

Per comprendere questo bisogna riflettere sul rapporto tra le tre virtù teologali: fede, speranza e carità. La speranza è una virtù architettonica, cioè si fonda sulla crescita della fede dentro il tempo. Essa ci permette di trovare la mano di Dio e di lasciarci accompagnare. Scopriamo così che l’esistenza è orientata dalla volontà libera del Padre, il quale ci ha voluti portare dal non essere all’essere, secondo il suo disegno.

La carità invece?

La carità è amare questo disegno e quindi amare di conseguenza l’umanità di Gesù. Solo così possiamo trovare una strada da seguire. Anche Lui ha vissuto in tutto la nostra vita, ha sofferto ed è morto, ma è risorto, è qui, è vivo. Può con forza indicarci una possibilità positiva per la nostra vita. La speranza è quindi attraversata sia dalla fede che dalla carità, divenendo la virtù più importante. Per questo bisogna aver ricevuto una grande grazia per poter sperare, scoprendo il senso della nostra vita, della ragione per cui siamo al mondo e della positività dell’esistenza anche nei momenti più drammatici.

Dopo la celebrazione in Vaticano, il Papa ha deciso di aprire la seconda Porta Santa il 26 dicembre nel carcere di Rebibbia, prima che facessero seguito tutti gli altri luoghi designati. A cosa è dovuta questa scelta?

Quando sono stato vescovo di Reggio Emilia-Guastalla ho visitato più volte il carcere. Vi ho trovato una situazione di estrema debolezza e di estrema povertà che può portare anche alla disperazione. Con questo gesto il Papa ha voluto dirci che non esiste situazione di abbandono totale dell’uomo. In qualunque contesto noi viviamo, sappiamo che lì c’è la presenza di Dio che ci aiuta e ci corregge con il suo perdono e la dolcezza della sua persona.

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Secondo il Dicastero dell’Evangelizzazione, mezzo milione di persone hanno già varcato la Porta Santa di San Pietro in questi primi giorni dell’anno giubilare. È la risposta alla richiesta di coraggio rivolta ai fedeli dal Pontefice, invitati ad essere «pellegrini alla ricerca della verità, sognatori mai stanchi, donne e uomini che si lasciano inquietare dal sogno di Dio». Cosa significa questo dato per la Chiesa di oggi?

Il cuore dell’uomo è inquieto fintanto che non trova la luce nell’abbraccio di Dio. L’inquietudine non può essere cancellata da nessuna sicurezza interiore e nemmeno dalle promesse delle grandi realtà dell’informazione, della tecnologia e della finanza. Il senso della vita non può essere la solitudine, né la ricerca del potere, né tantomeno il tentativo di evitare la debolezza e la morte. Oggi, purtroppo, le potenze mondiali che governano pensano di strutturare a modo loro il mondo, promuovendo come ideale da raggiungere l’immagine di un uomo super-performante e privo di problemi.

Invece c’è molto di più.

Sì, certamente. Il futuro del mondo si riempie di una molteplicità di significati che passa attraverso i doni di ciascuno, compresi quelli della fragilità e misteriosamente anche quelli della colpa e della disperazione. Questo se visto come una strada di riscoperta del proprio rapporto con il Mistero, con l’infinito e con Dio è un dono prezioso che contribuisce alla costruzione di una società a misura d’uomo.

Monsignor Camisasca, quest’anno per lei si celebreranno i 50 anni di sacerdozio. Nella sua esperienza personale cosa significa conservare “senza indugio” la speranza e qual è il suo messaggio personale ai fedeli che parteciperanno al Giubileo 2025?

L’augurio che rivolgo a me stesso e rivolgo a tutti, in particolare ai lettori di Tempi è questo: acquisire gli occhi di Dio. Questo può avvenire coltivando la preghiera e il silenzio che portano a entrare dentro il Mistero che guida il mondo e da cui possiamo attingere anche noi forza e sostegno. Inoltre auguro a tutti di poter acquisire il dono della sapienza che è concesso da Dio a coloro che lo chiedono. In questi giorni di inizio d’anno sto meditando proprio il libro della Sapienza e gli altri libri sapienziali e trovo ripetuta questa frase, su cui invito tutti a riflettere: «Fondamento della sapienza è il timore di Dio».

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Cosa si intende per timore di Dio?

Il timore di Dio non è la paura del Signore, ma semplicemente il riconoscimento della sua grandezza e della nostra creaturalità. È la bellissima scoperta che noi possiamo attenderci tutto da Lui, perché possiamo diventare parte della sua stessa famiglia, della comunione che Lui vive con il Figlio nello Spirito. Questo ci è promesso: una vita che non finisce, una vita liberata dalla morsa della morte, una vita di luce e di gioia, di canto e di comunione.



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