Franco Arturi: “Il razzismo nello sport è un’emergenza nazionale, ma non lo abbiamo ancora capito”

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Sul razzismo negli stadi ci sono protocolli, disposizioni, iniziative parlamentari, campagne di comunicazioni. Che diventano tuttavia vane ogni settimana, quando dagli spalti piovono verso i calciatori in campo offese, epiteti xenofobi, se non addirittura oggetti. Ogni settimana ci indigniamo, diciamo che bisogna prendere misure drastiche. Poi l’attenzione scema, fino al prossimo episodio che decidiamo di definire “grave”. Su tutto il contesto che genera i singoli episodi c’è poco interesse. Il giornalista Franco Arturi, editorialista della Gazzetta dello sport e direttore Fondazione Candido Cannavò per lo Sport, è uno di quelli che non ha mai smesso di denunciare, anche in quei periodi in cui l’argomento passa di moda. 

Franco Arturi, ogni settimana ci sono nuovi casi di razzismo nei nostri stadi. Un paio di settimane fa, in Serie B, il calciatore nigeriano Ebenezer Akinsanmiro della Sampdoria è stato persino ammonito e poi sostituito dopo aver risposto polemicamente ai tifosi avversari che durante la partita avevano rivolto cori e versi contro di lui. Quanto meno credo sia lecito mettere in dubbio l’efficacia delle risposte date, di volta in volta, ai frequenti casi di questo tipo.

Purtroppo lo sport non è un campo franco. Soffre dei mali che coinvolgono gli altri campi della vita sociale, soprattutto in relazione al fenomeno dei social e quindi degli attori online. Eppure negli stadi, con una relativa frequenza, si ascoltano cori contro i quali la fermezza dovrebbe essere assoluta. Durante le partite non è mai facile capire quando, come e se fermare il gioco in caso di una manifestazione di razzismo. Ma resta il fatto che è fondamentale che ci sia una sensibilizzazione costante a riguardo. Tra l’altro questi cori a sfondo razzista sono anche profondamente stupidi perché ormai la gran parte delle squadre si fonda su giocatori di origine africana. Tutti i tifosi hanno ormai dei beniamini con un altro colore della pelle, il che rende automaticamente e logicamente assurda ogni manifestazione razzista. Voglio però dire che il fenomeno non è limitato al razzismo. Il razzismo è la più pericolosa delle barbarie prodotte dall’umanità e dovrebbe rimanere sempre in cima ai pensieri e alle preoccupazioni. Però il problema è più generale: attorno allo sport c’è un clima totalmente tossico.

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Ci faccia qualche esempio.

Cito due casi recenti che possono dare senso di quello che sta succedendo. Uno degli odiatori che in questi mesi si è messo in particolare luce è il tennista – ormai ex tennista -australiano Nick Kyrgios, che continua a combattere una campagna fondata su menzogne, fake news e volgarità contro il nostro Sinner. Sostiene delle falsità che danno il senso di quanto pericoloso e tossico sia l’ambiente attorno allo sport. Il caso di Sinner è emblematico: anche in Italia ci sono manifestazioni online di intolleranza nei suoi confronti, anche solo perché la sua lingua madre non è l’italiano. Una persona di grande cultura sportiva come lui è costretto a sopportare un’ondata di odio incredibile. Ciò è veramente incomprensibile. Come del resto è incomprensibile, in termini di razionalità, un altro caso clamoroso tuttora in piedi.

Prego.

Questo secondo caso fa capire l’internazionalità di questo fenomeno. Riguarda una giocatrice americana di basket che si chiama Caitlin Clark. Ha solo 22 anni, ha finito da poco il primo anno come professionista e ha già ottenuto la copertina Time. Si tratta della prima giocatrice di basket ad avere questo onore. Parliama di una cestista che possiede una bravura e una spettacolarità di gioco fuori dal normale. Gli indici di ascolto di alcune delle sue partite sono stati persino superiori a quelli delle partite maschili dell’NBA. Bene, questa ragazza è diventata un caso nazionale suo malgrado. Contro di lei si è scatenato l’inferno senza che lei abbia detto una singola parola. La sorgente dell’odio è sempre viva, dovunque. Ha bisogno soltanto di pretesti, a volte assurdi, per manifestarsi. Non possiamo abbandonare il campo e considerare goliardate queste espressioni, anche se la stragrande maggioranza delle volte sono anonime.

Tornando all’Italia, voglio chiederle di commentare un sondaggio condotto da SWG e pubblicato circa un anno fa. Metà delle persone intervistate aveva considerato normale insultare i propri campioni, gli avversari e gli arbitri allo stadio. Per un intervistato su 5 in nome del tifo era lecito anche ricorrere ad epiteti razzisti e per lo stesso numero di partecipanti il calciatore colpito da offese e cori avrebbe dovuto sopportare qualsiasi cosa senza sopportare. Per il 16% dei partecipanti al sondaggio era addirittura normale cercare lo scontro fisico con i tifosi avversari.

È evidente che per molte persone questo limite non c’è. Dovrebbe essere intuitivo, basato sulla buona educazione che viene impartita in famiglia. Eppure lo sport, e lo stadio in particolare, viene visto come una zona franca. In questo hanno una grande responsabilità, pluridecennale, le istituzioni dello sport. In Italia, in particolare, hanno lasciato ampiamente che questa deriva continuasse. Sui tifosi non è il caso di generalizzare, ma è evidente che nascondono al loro interno il peggio del peggio. Ci sono aree di extraterritorialità rispetto allo stadio. Per quieto vivere si è ritenuto che determinate persone potessero avere lì uno sfogatoio. In realtà l’aspetto culturale non è limitato alle curve, che presentano spesso problemi emergenziali in ordine pubblico.

Chi altro è coinvolto?

Tutti gli altri settori dello stadio, non solo le curve. In molti stadi d’Italia, tutte le settimane, decine di migliaia di persone urlano “merda” ogni volta che il portiere avversario rinvia la palla. Questo grido non viene solo dalle curve. Significa che quei dati da te enunciati sono purtroppo veri. Lo sport è vissuto come una folle battaglia identitaria di noi contro gli altri, in cui quasi tutto è consentito. Questo, naturalmente, è lontanissimo dal concetto di sport.

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È qualcosa di ineluttabile?

No, e lo capiamo vedendo il Regno Unito. Non è un paese che dista da noi anni luce, ma solo un’ora e un quarto di volo. A Londra possiamo vedere partite di calcio in totale tranquillità. Quindi si può, attraverso un’operazione culturale e una attività di “repressione sana”, istituzionalmente corretta.

Cosa si deve fare a livello educativo?

Io sostengo da tempo che l’educazione al tifo debba essere una materia di insegnamento nell’ambito dell’educazione civica, sin dalla scuola materna. Dopo Milan-Inter, quando i bambini della scuola materna entrano nella loro classe, al lunedì, ripetono le peggiori parolacce provenienti dai cori che hanno ascoltato nelle loro case dai loro genitori. L’educazione al tifo nell’ambito dell’educazione civica deve entrare nelle scuole, deve essere una materia base nella nostra attuale situazione, che dal punto di vista è culturalmente depressa.

Come andrebbe insegnata l’educazione al tifo?

A suo tempo avevo lavorato a un progetto concreto su come insegnare l’educazione civica, sin dalle elementari, partendo esclusivamente dallo sport. Il calcio, in particolare, è una cosa con cui bisogna misurarsi da subito. Questo è il primo passo.

Poi?

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Poi ciascuno deve stare al suo posto. Le curve non possono essere quel verminaio che sono negli stadi italiani. Solo ogni tanto, in occasione di qualche incidente particolarmente grave, c’è una levata di scudi. Poi, sostanzialmente, tutto ritorna come prima. Il biglietto nominale che non si riferisce a un posto a sedere unico, ad esempio, è una barzelletta degli stadi italiani.

Il punto è che non si ha la volontà politica di far cambiare le cose. In questo clima, scandalizzarsi del singolo episodio è francamente ridicolo. Ci sono persino stati arresti per infiltrazioni della criminalità organizzata! Ripeto: mai generalizzare. Però è chiaro che questi personaggi andrebbero espulsi ed è chiaro che le curve che possono essere una parte di stadio in cui lo stato non è presente.

Esistono casi di tifo positivo all’interno del tifo organizzato italiano?

Sì. Ad esempio esiste l’omonima iniziativa che noi della fondazione Candido Cannavaro per lo sport abbiamo visto nascere, che è stata l’ultima cosa di cui si interesso Candido quando era ancora in vita. Ci sono delle iniziative che funzionano, seppur isolate. Ci sono dei casi di curve che hanno fatto dei gesti positivi. Penso a gesti di solidarietà nei confronti di persone in difficoltà, che fanno da contraltare alle curve che urlano “devi morire” quando l’avversario cade e si fa male.

A tal riguardo lei parla di emergenza culturale.

Sì, che riguarda tutti. Riguarda anche i fruitori delle tribune d’onore, dove un biglietto costa centinaia di euro e dove quei cori di cui parlavo prima si sentono inequivocabilmente. E non è una emergenza limitata al calcio, perché dentro qualche palazzetto di basket, per esempio, le cose non vanno molto diversamente. E poi ci sono gli odiatori da tastiera. Quelli che odiano chiunque non abbia la loro stessa opinione, a partire dai giornalisti. Quelli che basano l’espressione delle proprie opinioni sul disprezzo, non sulla capacità di ascolto. Per loro il male è sempre nella parte avversa, il diverso è un inferiore o una persona da sopprimere. Sono le connotazioni del tifo selvaggio, che non si pone mai delle domande.

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Che domande dovrebbe porsi?

“Se non avessi un avversario, con chi potrei esprimere la mia voglia di giocare o fare il tifo?” L’importanza dell’avversario è centrale, praticamente e filosoficamente. Ovviamente nessuna di queste teste malate si pone minimamente la questione. Per cui, ad esempio, gli odiatori della Juventus vorrebbero vedere scomparire i napoletani dentro un vulcano, e così via. Nessuno è escluso. Siamo oltre i confini della razionalità, in quegli ambiti che nella storia hanno sempre determinato i guai peggiori. Come il razzismo,  che si fonda su delle fake news colossali e sul fatto che il male deve essere sempre altrove. La colpa, di volta in volta, è stata dei neri, degli ebrei, degli omosessuali e così via. Agnelli sacrificali da abbattere.

Proviamo a tracciare, riepilogando quanto ci siamo detti, una sorta di road map per uscire da questo clima così violento e irrazionale, in cui ogni comportamento è ritenuto lecito.

La chiave a lungo termine è quella di insegnare il tifo sin dall’asilo. Per quanto riguarda l’Italia, c’è un’emergenza che non è riconosciuta perché le istituzioni sportive calcistiche (e non solo) sono in colossale ritardo. Affrontiamola partendo dal riconoscerla come tale. Riguarda tutti.

Foto in copertina: RF._.studio: https://www.pexels.com/it-it/f…

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