Dopo gaffe e veleni il monito del presidente, tra l’indifferenza degli agrigentini e la grande opportunità per questo territorio
Qui, nell’indifferenza diffusa, sembra una giornata come tante altre. Se non fosse che, più che nella Capitale della Cultura, appena arrivi ad Agrigento, almeno tre sensi – l’olfatto, la vista e l’udito – ti catapultano subito nel Regno del Bitume. L’odore forte di asfalto fresco alimentato dalla pioggia, sul saliscendi che porta al belvedere sotto piazza Pirandello, solca il percorso “presidenziale”, più nero della pece, che frigge croccante sotto gli pneumatici, spiccando sulla trasandata opacità dei marciapiedi.
Le strade asfaltate fino alla notte prima. Questa è la toppa. Il vero “logo”, esistenzialismo ancor prima che marketing, di ciò che è stata, fino a ieri mattina, Agrigento Capitale della Cultura 2025. Un memento di catrame appiccicato alla meno peggio: d’ora in poi si cambia passo. Anche perché sulla città dei Templi (sfregiati dai cartelloni sgangherati) e di Luigi Pirandello (oltraggiato dalla pioggia dal tetto del teatro a lui intitolato) ieri s’è abbattuta una “benedizione”. Quella di Sergio Mattarella. Non era scontato che venisse, né che parlasse, né che dicesse quello che ha detto. Invece il presidente della Repubblica viene (alla cerimonia d’inaugurazione dell’anno da Capitale), prende la parola (osannato dai presenti) e lancia un messaggio preciso.
Anzi: più di uno. Perché quando il capo dello Stato evoca «le inestimabili risorse» che «rischiano di deperire senza cura adeguata» sta parlando ai 43 tenutari di fascia tricolore seduti in sala, molti dei quali sindaci di quelle aree interne su cui da tempo si batte. Ma, esplicitando «una sfida per accrescere le opportunità dove oggi si sono ridotte», si rivolge anche alla (finora sgangherata) macchina organizzativa di un evento costellato di gaffe e ritardi: Agrigento non dev’essere «soltanto spettacolare palcoscenico», ma soprattutto «una spinta per tante altre realtà italiane».
La bellezza non basta
Tradotto: la bellezza non basta, rimboccatevi le maniche. Senza l’opportunismo solista e lamentoso (tipico dei siciliani, e ancor più degli agrigentini), ma, con la «scintilla» di Empedocle, «la necessità di ricomporre, rigenerare coesione, di procedere insieme».
Mattarella atterra in una città in cui soltanto una minima parte della comunità sembra interessata a quello che sta per accadere. Certo, si trovano scolaresche con le bandierine, autorità locali emozionate per l’evento. Ma al di fuori di questa “zona rossa” sembra regnare l’indifferenza. «Non è che ora con Mattarella ci arriva l’acqua e tolgono la munnizza», filosofeggia un banconista all’ingresso di via Atenea.
Il messaggio
Ha ragione, ma soltanto in parte. La visita del presidente della Repubblica non cura nessuna delle piaghe di questa città. Ma è un messaggio, forte e chiaro, a chi ha la responsabilità di far fruttare la “nomination” 2025. «Italiani da ogni regione saranno richiamati dal vostro patrimonio culturale, dalle proposte che saprete avanzare», incalza gli agrigentini. Il capo dello Stato cita Pirandello («con la sua sagacia, la sua ironia, con le sue maschere e la sua capacità di scavare l’animo umano), ma anche «Andrea Camilleri, figlio di queste terre». E, dopo le polemiche del sindaco di Lampedusa che si sente “trascurato”, il capo dello Stato. all’inizio del suo discorso, fa un passaggio forte sui «lampedusani, concittadini che le ferite del nostro tempo hanno reso avanguardia della civiltà europea». Servirà per far tornare il sereno fra la regia della Capitale e Lampedusa, dove fino a ieri l’ex sindaco Totò Martello evoca la secessione da Girgenti, chiedendo di «diventare il Comune numero 83 della provincia di Palermo»? Per non parlare delle proteste dei sindaci di Sciacca e Burgio, loro capitali della ceramica, per la mostra di prodotti di Savona nel cartellone di Agrigento 2025, o del pastrocchio sul “Giardino della Pace” da piantare in un castello, diroccato e irraggiungibile, di Ribera.
Mattarella dà benedizioni. Ma non fa miracoli. E poi non bisogna fare l’errore di ingabbiare le sue parole in una logica localistica. Il presidente vola altissimo – arrivando magari fino Oltreoceano, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump con il potentato di Elon Musk – mentre da Agrigento lancia il monito sulla tecnologia che «talvolta vuole monopolizzare il pensiero». La cultura «al contrario, è rivolgersi a un orizzonte ampio, ribellarsi a ogni compressione del nostro umanesimo, quello che ha reso grande la nostra civiltà». L’umanesimo di cui una terra come la Sicilia è «testimone».
Una novità, anzi due
Standing ovation. Come al solito. Ma stavolta c’è anche una novità. Anzi: due. Dopo aver disertato la conferenza stampa di presentazione a Roma, al teatro Pirandello ci sono anche Alessandro Giuli e Renato Schifani. Sul palco il ministro della Cultura non viaggia nell’«infosfera globale» (si concede giusto un passaggio sulla «lotta contro la rarefazione del senso dello Stato»), ma atterra nel cuore del problema. Mette in guardia sulla «grande occasione da non fallire», ma definisce quella di Agrigento Capitale «una proposta credibile» con «eventi di caratura internazionale» e assicura la «convinta disponibilità» del suo ministero. Quasi piange di gioia, il sindaco Franco Miccichè che ha appena parlato di «un punto storico di svolta», con una «profonda assunzione di responsabilità».
Ancor più apprezzato (anche Mattarella lo applaude più volte) l’intervento di Schifani, che da venerdì “presidia”, anche con doverose urla al vertice in Prefettura, la Capitale della Cultura. Il governatore, finora critico tanto da evocare il commissariamento, si toglie una pietra templare dalla scarpa sulle «critiche ingiuste» al concerto ferragostano-natalizio del Volo. E, soprattutto, decide di metterci la faccia: «Abbiamo fatto una grande scommessa per Agrigento e per l’intera Sicilia, la vinceremo». Fondi in quantità, assessori (a partire dagli agrigentini Roberto Di Mauro e Giusi Savarino) e protezione civile mobilitati. «Siamo una squadra, ce la faremo», scandisce il governatore. Che da ieri diventa protagonista del salvataggio (o del tonfo definitivo) dell’anno da Capitale.
E gli agrigentini? Alla fine della cerimonia, trasmessa da Mamma Rai, tutto sembra tornato all’atarassica normalità. In piazza la stramba statua del Pirandello “culturista” resta in solitudine, simbolo di un surrealismo più che mai reale. «L’opera delle istituzioni e le politiche pubbliche sono importantissime e tuttavia non basteranno se non verranno sostenute da una corale responsabilità dei cittadini», ha appena scandito Mattarella. Così è (se vi pare): chi, all’ombra della Valle dei Templi, ha gli occhi colmi di bellezza e la bocca piena di veleno, da ieri non può ancora far finta di nulla.
Niente più alibi: chi sbaglia, paga.COPYRIGHT LASICILIA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA
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