Trump riparte dalla guerra commerciale con la Cina. Le mosse di Pechino, dall’economia al consolidamento dei Brics (a partire da Mosca)

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Nel maggio 2015 il governo di Pechino lanciò un piano per affrancare la Cina dallo stereotipo di “fabbrica del mondo”. Lo scopo era passare dalla produzione a basso costo a quella ad elevata capacità tecnologica attraverso l’indigenizzazione di dieci settori chiave, dall’intelligenza artificiale ai semiconduttori. Il salto serviva a rendere il Paese più autosufficiente davanti alla crescente competizione con gli Stati Uniti. E conquistare il mercato globale delle industrie del futuro.

Quel piano si chiama Made in China 2025. O meglio si chiamava. Il prossimo anno compie dieci anni, ma l’atmosfera non è quella di una festa. Guardato con sospetto in Occidente, la leadership cinese da tempo non lo nomina più. Gli obiettivi prefissati sono stati in buona parte raggiunti. In alcuni settori, come veicoli elettrici e fotovoltaico, persino superati. Ma dal 2019 la spesa per i sussidi industriali ha raggiunto i 231 miliardi di dollari. L’economia rallenta, il debito interno sale e gli smottamenti dell’immobiliare sono ancora lungi dall’essere risolti. L’inizio del nuovo mandato di Donald Trump alla Casa Bianca – con la promessa di nuove tariffe e altre ritorsioni commerciali – aggiunge, a partire dal 20 gennaio, ulteriori incognite a una situazione interna già di per sé non facile.

“Nei prossimi quattro anni, l’attenzione di Pechino sarà significativamente occupata dal compito di rilanciare l’economia in rallentamento del Paese”, prevede in un’analisi per Foreign Affairs Yan Xuetong, uno degli esperti cinesi di politica internazionale più autorevoli. In particolare il 2025 è un anno cruciale. Non solo perché dà nome alla controversa visione strategica. Coincide anche con la fine del quattordicesimo piano quinquennale, lanciato durante il Covid-19. Un “periodo importante” che il documento definisce ricco “di opportunità strategiche per lo sviluppo” ma anche di “sfide”. Se l’obiettivo conclamato del piano era la “prosperità comune” e “stimolare entusiasmo, creatività, e promuovere l’equità sociale”, finora il risultato è quantomeno dubbio. Oltre la Muraglia, la disoccupazione giovanile, sebbene in leggera discesa, si aggira ancora sopra il 16%. Secondo Freedom House, nel terzo trimestre le proteste (soprattutto per motivi economici) sono aumentate del 27%. E le frequenti aggressioni in luoghi pubblici degli ultimi tempi certificano un malessere diffuso tra la popolazione cinese.

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Cosa farà Pechino? Per gli annunci ufficiali bisognerà attendere la plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo, l’organo legislativo che si riunisce di solito a marzo per approvare obiettivi economici e bilanci vari per l’anno in corso. Ma il grosso già si sa. Al di là del tasso di crescita (che come nel 2024 gli analisti mantengono intorno al 5%), secondo le anticipazioni emerse dalla recente Conferenza centrale sul lavoro economico, il governo cinese ha priorità ben precise per il prossimo anno: espandere la spesa fiscale, implementare misure mirate per rinvigorire il settore privato e gli investimenti nelle nuove tecnologie. Le cosiddette “nuove forze produttive”. Neologismo per mascherare il vecchio Made in China 2025. E poi ovviamente stimolare la domanda interna, missione che Pechino si trascina dalla pandemia e che stavolta perseguirà continuando a sussidiare beni immobili e di consumo, ma anche cercando di intervenire maggiormente sul welfare. La ricetta – le autorità lo dicono chiaramente – serve ad attutire gli “shock esterni”: ovvero l’imminente arrivo dell’amministrazione Trump 2.0.

The Donald, che si è circondato di “falchi”, sembra intenzionato a proseguire la guerra commerciale cominciata durante il primo mandato. La Cina stavolta si dice pronta: sa chi ha davanti. Sa di poter provare a trattare. Sa che il presidente eletto non ha vincoli ideologici. Ma le contingenze economiche, come detto, non sono delle migliori. Il nuovo piano di sviluppo a trazione tecnologica è ancora in rodaggio e gli stimoli annunciati in questi mesi finora hanno disatteso le aspettative dei mercati finanziari.

Secondo Zhang Yansheng, ricercatore presso la China Academy of Macroeconomic Research, “nonostante possano sorgere pressioni interne per reagire, Pechino probabilmente risponderà rafforzando il suo impegno a favore del libero scambio”. D’altro canto, il preannunciato ripiegamento degli Stati Uniti dagli impegni internazionali fa gioco alla Cina che potrà (ri)proporsi come interlocutore responsabile agli occhi degli alleati degli americani rassegnati all’ennesimo “tradimento” di Trump. Quattro anni fa con l’Unione europea ha funzionato, ma stavolta il corteggiamento sarà più complicato. Bruxelles condivide molte delle critiche e dei timori degli Stati Uniti, tanto sul versante commerciale quanto sul piano della sicurezza. Dall’introduzione a ottobre dei dazi europei i produttori cinesi di veicoli elettrici hanno già perso quote nel mercato unico. E poi naturalmente c’è il dossier Ucraina. Il blocco dei 27 ha manifestato chiaramente il suo disappunto pochi giorni fa imponendo le prime sanzioni dirette contro obiettivi cinesi accusati di sostenere la Russia.

Difficile attendere una distensione con il Vecchio Continente considerata l’imprescindibilità strategica della partnership con Mosca. Anzi. L’offensiva tariffaria di Trump rischia di rafforzare quel rapporto torbido e asimmetrico (a favore di Pechino), ma fondamentale tanto per Xi Jinping quanto per Vladimir Putin proprio in risposta al pressing di Washington. Certo, il tycoon potrebbe provare a risolvere la guerra in 24 ore, come promesso. Missione che, però, più che separare Mosca da Pechino secondo uno “schema Nixon al contrario” necessiterebbe quasi sicuramente di un coinvolgimento della Cina in qualità di mediatrice, lasciando perlopiù immutata la natura delle relazioni sino-russe.

La stessa continuità verrà probabilmente mantenuta con il Sud globale, sempre più centrale nella strategia estera di Pechino. Il recente disgelo con l’India conferma l’interesse della Cina a consolidare piattaforme alternative (come i Brics), funzionali alla realizzazione di un nuovo ordine mondiale “più democratico”. Traguardo ormai considerato la “stella polare” della diplomazia cinese. Alcune variabili potrebbero tuttavia modificare l’intensità degli sforzi riformisti.

Come “l’amicizia senza limiti” con la Russia, nell’ultimo triennio l’allineamento con l’ex Terzo mondo è diventato funzionale a bilanciare il crescente isolamento della Cina nell’emisfero occidentale. Se così sarà anche nel 2025 dipende quindi in parte dalle future mosse di Trump e dell’Ue. In parte anche dagli sviluppi regionali: in Medio Oriente il cambio di governo in Siria ha indebolito la rete locale di alleanze cinesi, basata sull’asse Iran-Russia, i due principali sconfitti dalla caduta di Bashar al-Assad. In Asia, invece, pesano sempre di più i contenziosi territoriali con le Filippine e gli altri vicini rivieraschi. Il tutto mentre le tensioni nello Stretto di Taiwan stanno spingendo sempre più Paesi economicamente dipendenti da Pechino ad accettare la protezione militare degli States. Peraltro nemmeno la “fratellanza Sud-Sud” è immune dalle divergenze commerciali. La recente chiusura di alcuni mercati di Africa, America Latina e Sud-Est asiatico dimostra come anche i Paesi “amici” cominciano a guardare con preoccupazione l’arrivo massiccio di merci e app cinesi respinte dall’occidente.

Secondo l’oroscopo cinese, il 2025 è l’anno del serpente. Un segno zodiacale né particolarmente positivo né particolarmente negativo, bensì premonitore di grandi metamorfosi. D’altronde Xi nel suo discorso di Capodanno lo ha detto chiaramente: “Come sempre, continueremo a crescere nel vento e nella pioggia, diventando più forti nei momenti difficili. Dobbiamo essere fiduciosi.”

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